UN
GRANDE SCRITTORE
Domenico
Rea e l’altra Campania. Quel legame umano e letterario con le province interne
di Paolo Speranza
NAPOLI
- “Ogniqualvolta mi reco nel Sannio avverto netta l’impressione di dover
come cambiare moneta, di prendere un altro atteggiamento, di prepararmi,
insomma, a entrare in un’altra dimensione”, scriveva Domenico Rea nel
mirabile saggio La provincia stregata: uno dei due articoli (l'altro si
intitolava Le motivazioni della regione mistica) ripubblicati dall'Ept di Benevento nel decennale della scomparsa, nel 2004, a
testimonianza di un legame vivo e mai interrotto tra lo scrittore ed il Sannio,
fino a far definire Rea, come si legge nella biografia scritta dal giornalista
Mino Jouakim, uno scrittore "osco-sannita":
l'unico del Novecento ad aver saputo percepire e amalgamare, nel carattere e
nella produzione letteraria, gli umori della Campania felix
e dell'Appennino meridionale.
Qualche
anno prima, nell'ormai raro volume Fuoristrada in Campania, lo scrittore
aveva sintetizzato nel capitolo L'ultima è Benevento - pubblicato
successivamente su "Prospettive culturali" con un titolo diverso - la
differenza del paesaggio umano e ambientale della regione interna rispetto
all'area costiera: "La Campania è davvero un continente. Partendo dal
mare, da Napoli o da una qualsiasi città della costa, in poco più di una
cinquantina di chilometri, la regione cambia clima, ambiente, atmosfera, genti.
Si passa dal clima temperato a zone il cui sistema metodico è l’inverno".
Una
dimensione lontana, nello spirito e nei ritmi, dalla vicina metropoli
partenopea nella quale ha vissuto gran parte della sua vita e della fertile
attività di narratore e giornalista; forse più vicina alla Nocera Inferiore (la
Nofi poeticamente rievocata in tanti articoli e libri) della nascita e
dell'adolescenza, tuttavia meno sanguigna e più silenziosa e composta. I
colori, i suoni e le voci di quell'ambiente caldo - in tutti i sensi - e ancora
vitalisticamente pagano in cui aveva vissuto la prima parte della sua vita (e
fa rivivere nel suo ultimo capolavoro, Ninfa plebea) gli sembrò di
ritrovarli nella "juta" a Montevergine, l'antico e particolarissimo
pellegrinaggio del popolo meridionale, in cui si fondevano come in nessun'altra
parte del mondo cristiano la religiosità profonda dei montanari e quella
chiassosa e paganeggiante della plebe urbana e della pianura campana, la
rassegnata disperazione degli umili e l'esibizionismo sfacciato, a tratti
carico di violenza, dei parvenu e dei mercanti.
"Vale
la pena di recarsi ancora a Montevergine, uno dei quattro santuari, con Santa
Maria di Compostela, Loreto e Lourdes, tappe sacre e obbligate degli antichi e
nuovi pellegrinaggi della cristianità?", si chiedeva retoricamente Domenico Rea in uno dei
numerosi testi dedicati al santuario mariano. Per rispondersi, senza
esitazione: "Certamente".
E
valeva la pena anche recarsi in altri luoghi dell'Irpinia, come quelli dove si
svolgeva il "Laceno d'Oro": “Ora, scoprire che in una piaga
appenninica dell’Italia - nella severa Avellino - si assegnano dei premi a nome
del «neorealismo», oltre che coraggioso, mi sembra quasi donchisciottescamente
eroico. Quando poi, a tener su con mille fatiche un’istituzione del genere,
sono due uomini come Camillo Marino e Giacomo d’Onofrio, che hanno sempre e
soltanto dato senza mai ricevere, si prova una sincera emozione. E per loro
due noi ogni anno torniamo ad Avellino".
Con
queste parole Domenico Rea concludeva una indimenticata conferenza al Liceo
“Colletta” di Avellino, dove era stato invitato insieme a Vincenzo Siniscalchi
il 21 ottobre del ’66. Da quell’anno - e fino al ’70 - lo scrittore napoletano
sarà il nuovo presidente del Festival internazionale del cinema neorealistico
promosso dal ’59 dalla rivista “Cinema Sud” diretta da Marino, con l’autorevole
sostegno intellettuale e organizzativo di Pier Paolo Pasolini, sull’altopiano
del Laceno a Bagnoli Irpino e poi, proprio dal ’66, ad Avellino e Atripalda,
fino al 1988.
Una
”investitura”, quella di Rea, avvenuta in circostanze a dir poco inusuali, come
confida quattro anni dopo lo stesso autore di Gesù, fate luce in una
cena con gli ospiti del festival: “Rea, questo volpone per il cinquanta per
cento scrittore e per l’altro attore - si legge in un reportage di Corrado
Carli, inviato del quotidiano “Il Lavoro” di Genova - perché napoletano al
cento per cento, incominciò a narrare, soprattutto per Baldelli, che era
l’unico a non conoscere Marino, la prima volta che si conobbero nel settembre
del 1964 a Sorrento per la prima mondiale di Per un pugno di dollari. Camillo
era con d’Onofrio (era come lo è da dodici anni, un’amicizia che dire fraterna
è ben poca cosa): la coppia iniziò a girare con passo sostenuto attorno allo
scrittore per lungo tempo fissandolo negli occhi: dopo parecchio Rea,
incuriosito, abbozzò un saluto; i due gli si gettarono addosso, lo adorarono,
gli proposero la direzione della rassegna del Laceno. Domenico capì subito di
trovarsi di fronte a qualcosa di eccezionale, di insolito, a forze scatenate
della natura e come quelle ingenue e intrepide; tra sé disse: “Non mi separerò
mai più da questi uomini”. Ancora oggi Rea per averli a cena a Napoli viene ad
Avellino a prenderli, li porta a Napoli, li riconduce ad Avellino e ritorna a
casa ormai all’alba”.
La
presidenza quinquennale di Rea coincide con l’età d’oro del Festival irpino, in
una felice simbiosi di entusiasmo ed impegno, di “dolce vita” provinciale - con
le soireè e le serate danzanti a Mercogliano e
Solofra - e di fermenti sessantottini. Toccò a
Rea, nel ’66, consegnare il primo premio a Ingrid Thulin,
la grande attrice svedese allora emergente, l’anno successivo ai fratelli
Taviani per I sovversivi e a Luigi Zampa, nel ’69 a Ettore Scola (primo
riconoscimento da regista con Il commissario Pepe), nel ’70 al Tinto
Brass impegnato di Drop out e ai protagonisti del film Franco Nero e
Gigi Proietti, al giovane e coraggioso Pasquale Squitieri di Io e Dio.
Furono
gli anni del disgelo verso il cinema dell’Est europeo, dei dibattiti dopo le
proiezioni, della “scoperta” di tanti attori e registi di opere prime e di
documentari, come Bernagozzi, Piavoli,
Giannarelli. Un festival giovane, coraggioso e conosciuto in tutto il mondo fu
quello che Rea riconsegnò al duo Marino-d’Onofrio e
al suo prestigioso successore: Cesare Zavattini.
Soprattutto
valeva la pena, sempre di più, fino agli ultimi istanti della sua vita,
ritornare e fermarsi nel Sannio, che Domenico Rea finì per scoprire ed amare un
pò alla volta ma con una convinzione e un piacere
sempre più intensi, fino ad eleggere la provincia di Benevento a sua terra
d'adozione: terra, per dirla con le sue parole, "da cui, tanto per
cominciare, va bandita ogni leggerezza. Si entra in un mondo serio, austero,
complesso: in una provincia italiana che ha gli ingranaggi di una nazione, si
badi, non di stato, che vorrebbe dire tutt’altra cosa. Nel Sannio le parole
sono ancora parole: risultato di un’organizzazione e concentrazione culturale
meditativa; giacché in quest’ambiente la vita ha avuto un ritmo tempestoso e
lento, essenza di diecimila esperienze ed è centellinata e misurata dalle
clessidre: granello dietro granello, fatica dietro fatica, a gloria di una
tradizione che non è nostalgia del passato, ma propulsivo ricordo di una storia
che ha pagato pedaggi durissimi per mantenersi presente all’appello del
progresso".
Alla
provincia di Benevento Domenico Rea dedicò diversi scritti: oltre ai memorabili
saggi citati, un importante reportage turistico (Viaggio a Telese)
pubblicato su "L'Espresso" del 7 marzo 1982, un articolo sull'oro
rosso del Sannio (Rosso o bianco purchè sia vino,
il 23 agosto dell'85 sul quotidiano "Il Mattino"), la prefazione al
libro di Alberto Abbuonandi sulle streghe di Benevento nel 1988.
Il
feeling con il popolo e il territorio del Sannio fu subito, e definitivamente,
ricambiato. Fin dal 1985: appena qualche settimana dopo l'uscita del suo pezzo
sui vini sanniti, i produttori del Taburno gli assegnarono il "Premio
Torrecuso". E numerosi furono gli attestati e gli incontri letterari in
suo onore, che raggiunsero l'apice nell'indimenticabile serata del 31 luglio
1993 all'Hortus Conclusus
di Benevento, con la quale l'Ept volle celebrare la
vittoria di Rea al 47° "Premio Strega" con Ninfa Plebea.
Lo
scrittore si trovava nel capoluogo sannita anche il 9 gennaio dell'anno
successivo, quando avvertì il malore che, due settimane dopo (secondo alcuni
anche per una diagnosi inadeguata al Centro Traumatologico di Napoli, dove era
stato immediatamente trasferito dopo un primo ricovero al "Rummo"),
lo avrebbe portato alla morte, il 26 gennaio, all'età di 72 anni.
Una
semplice coincidenza, che alcuni indizi culturali evocano tuttavia come il
segno di un destino. E a molti piace immaginarlo così: estremo segno di un
legame diventato indissolubile con quella Campania interna (l'Irpinia prima, il
Sannio poi e con maggior forza) che Domenico Rea ha saputo comprendere ed
apprezzare come forse nessun altro scrittore italiano.
***
(Paolo
Speranza storico, saggista e docente)