CENTENARIO DELLA NASCITA

 

Cinema e sport, le due passioni di Maurizio Barendson. Quel film al festival di Cannes del fondatore di  "90° minuto"  

di Paolo Speranza

 

ROMA - Il suo posto nella storia Maurizio Barendson se lo è conquistato nella cultura sportiva, da giornalista e anchorman tra i più quotati e popolari (fino a entrare nella galleria di personaggi del più famoso imitatore della Rai, Alighiero Noschese, napoletano come lui) fondatore, con Paolo Valenti, di 90° minuto, dal 1970 uno dei programmi tv più seguiti.

 

Ma nel centenario della nascita – nacque il 9 novembre del 1923 da una famiglia di origine olandese - è doveroso far riemergere un aspetto meno conosciuto della sua poliedrica attività intellettuale: quello di sceneggiatore e critico cinematografico.

 

Se lo sport ha rappresentato una scelta di vita, fino alla prematura scomparsa nel 1978, il cinema è stato il suo primo amore, a cui ha cercato periodicamente di ricongiungersi. Ci riuscì pochi mesi prima di lasciarci, scrivendo con l’amico Antonio Ghirelli il documentario Sport Superstar, diretto dal regista Vittorio Sala. Ma il frutto più maturo del suo lavoro di sceneggiatore, in collaborazione con Raffaele Andreassi, apprezzato regista di documentari, fu il loro unico lungometraggio di fiction.

 

Era il 1969 quando Andreassi e Barendson, rispettivamente regista e autore della sceneggiatura (insieme allo scrittore Nelo Risi e al critico cinematografico Callisto Cosulich) furono invitati al Festival di Cannes con Flashback, unico titolo a rappresentare l’Italia tra i 28 in concorso. Flashback non conquistò premi (fra i concorrenti c’erano Easy Rider, Isadora, Z di Costa-Gavras) ma un lusinghiero consenso di critica per l’originalità dell’ispirazione e uno stile di avanguardia.

 

Ambientato nel 1944 sull’Appennino toscano, Flashback ha solo la cornice di un film di guerra, raccontata attraverso il flusso di memoria di un giovane soldato tedesco, interpretato da Fred Robhsam, dimenticato dai commilitoni e costretto a nascondersi su un albero per sfuggire ai partigiani. Da quell’insolito punto di osservazione scruta con il cannocchiale del suo fucile la campagna circostante, che a poco a poco attenua il ricordo delle terribili azioni di guerra di cui è stato complice e gli fa riassaporare il gusto della vita semplice dei contadini del luogo, che però la follia a cui è giunto gli impedisce di rivivere.

 

Una lirica metafora della guerra, dove il contrasto tra la luminosità del paesaggio e la crudeltà della vicenda “distende il racconto in un rarefatto lirismo di immagini”, commentò “Bianco e Nero”. Il film fu riproposto nel 2008 a Venezia nella retrospettiva “Questi fantasmi. Cinema italiano ritrovato (1946-1975)” e il mensile “Nocturno” ne ha sottolineato di recente l’originalità di “thriller esistenziale assolutamente fluido, dinamico, esaltato da una fotografia in teleobiettivo”.

 

Una raffinatezza di scrittura che non sorprende, alla luce della profonda cultura cinematografica di Barendson, formatosi negli anni Quaranta al Cineguf di Napoli e sulla più importante rivista di settore, “Cinema”, accanto a futuri cineasti di valore come Carlo Lizzani, Antonio Pietrangeli, Giuseppe De Santis.

L’articolo più importante di Barendson fu pubblicato nel numero del 25 settembre 1942 con un titolo ambizioso, Il cinema dell’avvenire, e molte considerazioni lungimiranti. Pur fra le contorsioni lessicali imposte dalla censura, il giovane critico non lesina critiche al cinema italiano dell’epoca (“tante opere inutili e decorative”) e ne auspica una svolta artistica prevalente sulla politica e sul moralismo, per raggiungere “il primato del cinema espressione massima di ogni sintesi estetica ed etica”.

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(Paolo Speranza  storico, saggista e docente)