LE
NOVITA' DI RIZZOLI
"Le
quattro Jihad" di Domenico Quirico. Lo scontro tra Islam e Occidente da
Napoleone a Hamas
Estratto dell'introduzione di Domenico Quirico al suo
nuovo libro edito da Rizzoli
*E
se avessimo sbagliato tutto? Se le guerre sante non fossero le crociate e i
vessilli catturati a Lepanto, qualcosa che ha a che fare con un fanatismo
rozzo, le madrase, le scuole coraniche immerse in un immobile oscurantismo,
vandee islamiche contro il progresso e la libertà, ma fossero semplicemente
sanguinose rivoluzioni? Battono ore sinistre per l'Occidente ma sembra che non
ce ne siamo ancora accorti.
Ben
trincerati dietro la barricata della «guerra al terrorismo», non vogliamo
ammettere che il jihad ha a che fare, e strettamente, non con il passato ma con
la modernità, la nostra modernità, che è stata riassunta efficacemente come «McMondo»: profitti e consumi, computer e fast food,
informazione e spettacolo senza barriere, mode e stili di vita, anche politica.
E domani l'Intelligenza artificiale. Progresso ma soprattutto potere, il nostro
potere.
C'è
un dipinto di Paul Klee in cui un angelo vola all'indietro perché dal paradiso
infuria la tempesta: non può chiudere le ali e contempla, annichilito, un
paesaggio di rovine che si accumula, come la nuova Babele, fino al cielo. Può
essere una sintesi efficace del jihad visto dai musulmani?
Poitiers,
la vittoria di Carlo Martello che nel 732 per noi salvò Parigi dal dover
portare il turbante, per l'islam fu una minuscola razzia andata male. Le
crociate non sono apocalittiche guerre sante, per i musulmani: nella loro
storia, soltanto una breve parentesi. Solo le discordie tra i veri credenti e i
loro ambiziosi aspiranti califfi avevano concesso ai franchi di calpestare per
poco tempo il terreno sacro di Gerusalemme.
Poi
quegli invasori avidi e primitivi furono ricacciati in mare. L'islam era
potente, moderno, colto, ricco. Fu un'incursione di barbari vestiti di ferro,
istigati da imam fanatici. Niente di più.
La
storia moderna dell'Oriente musulmano si fa risalire non a caso al 1798, quando
Bonaparte arrivò in Egitto, ed è per questo che abbiamo scelto questa data per
iniziare questo libro.
Napoleone
aveva un orizzonte continentale europeo, i mari e gli oceani erano uno scenario
ostile e sconosciuto, dove non aveva effetto il suo talento strategico. In
Egitto andò per tagliare la Via delle Indie all'irriducibile Inghilterra,
difesa dalla propria insularità. Per la prima volta costrinse una parte
dell'islam a subire il dominio di una potenza occidentale.
Ma
soprattutto, la sottopose al contatto diretto, quotidiano con le idee e i
costumi del nuovo Occidente. E con la constatazione visiva, sconvolgente, della
superiorità di una potenza moderna.
Gli
abitanti del Cairo poterono assistere – assiepati sui tetti e sulle dune, sullo
sfondo delle piramidi, come in un immenso teatro – all'agonia della medioevale
cavalleria dei mamelucchi, gli schiavi diventati padroni che, fino ad allora,
erano stati ritenuti invincibili.
I
cavalieri nelle loro armature che splendevano al sole furono falciati come
spighe di grano dalla fucileria ritmica, industriale dei francesi. I cairoti
ammutoliti li videro annegare a migliaia, tentando la fuga, nelle acque del
Nilo.
Era
l'equivalente della battaglia di Valmy, quando
Goethe, assistendo alla sconfitta delle truppe dell'Antico Regime contro le
armate rivoluzionarie francesi, notò che iniziava un Mondo Nuovo.
Al
di là della curiosità di alcuni (pochi) sapienti per le abitudini e le nozioni
dei francesi, l'Egitto fu sconvolto dal loro dichiarato ateismo. Capirono
subito che le manifestazioni di rispetto e di curiosità che esibivano nei
confronti della profonda fede religiosa di quei sudditi erano uno stratagemma
politico per ottenere obbedienza, che nel privato si trasformava in pietà e
irrisione per pratiche primitive, fanciullesche.
In
questo Napoleone, con i suoi proclami «islamici» e le arie da emiro, fece
scuola anche a soldati e ufficiali.
Modernità
e sottomissione, fin dalla prima invasione francese, si presentarono come
termini equivalenti: modernizzarsi significava automaticamente
occidentalizzarsi, rinunciare a una parte di sé. Il colonialismo ottocentesco,
aperto fragorosamente dall'era napoleonica, sarà dunque nei Paesi dell'islam lo
strumento di quella modernità così violenta e disgregatrice.
L'impotenza
diventa il simbolo del malessere musulmano. Impotenza ad agire per affermare la
volontà di essere, di fronte all'Altro, l'Occidente che vi nega, vi disprezza e
vi domina. Impotenza, bruciante, nell'ammettere che si è una parte trascurabile
sullo scacchiere del mondo, anche quando la partita si gioca su di voi.
I
jihad che questo libro racconta sono la conseguenza di quella dura
constatazione: l'Occidente, con il susseguirsi e il sovrapporsi delle potenze –
Francia, impero britannico, la Russia nel Caucaso e in Asia centrale, infine
gli Stati Uniti (persino l'Italia, micropotenza
coloniale, in Libia dovette affrontare il suo jihad) – e la globalizzazione
economica militare scientifica, è il nemico contro cui bisogna battersi.
La
lotta religiosa in nome della fede è diventata insurrezione politica cruenta in
nome di un'identità, definita in modo metafisico. Un complesso di caratteri
comuni personali e collettivi da opporre alle uniformità paralizzanti della
modernizzazione colonizzatrice del McMondo. Un
«terzomondismo islamico» che, nelle manifestazioni più totalitarie, considera
come dovere più alto il massacro degli altri in nome di una purezza biologica
scritta da un certo islam.
Ogni
jihad, come vedremo, si è modificato e aggiornato politicamente, è tutt'altro
che espressione di immobile fanatismo. Analizza l'avversario e modifica i
metodi di lotta e aggiorna i nemici. Al Cairo, nel 1798, fu pura rivolta di
strada e di moschea, i capi restarono prudentemente all'ombra degli edifici
sacri, anche se compare la figura, di cui vorremmo sapere di più, di un «emiro»
di strada, detto «il Magrebino». Nel Sudan del Mahdi, che lotta contro un
doppio, ambiguo colonialismo (in cui in prima linea ci sono altri musulmani,
l'Egitto modernizzatore del khedivè, e alle spalle l'Inghilterra), emerge il
tema dei «musulmani falsi», dei collaborazionisti. La prima necessità diventa
dunque la purificazione del campo islamico. La riprenderanno Bin Laden contro i
sauditi, difensori dei luoghi santi ma appestati dal rapporto con l'Occidente,
e le stragi di musulmani durante le guerre del Califfato.
Ebbene:
due delle maggiori potenze, Stati Uniti e Russia, il cui duello ha
monopolizzato la seconda metà del Novecento, sono andate a Riad per definire di
nuovo l'equilibrio del mondo dopo la guerra indiretta combattuta in Ucraina. E
tra loro come mediatore c'è l'ambizioso erede al trono saudita, Bin Salman.
L'Arabia: che ha fornito al jihad e ai suoi profeti il vangelo ideologico, un
islam reazionario e aggressivo nella versione wahhabita… I sauditi: alleati
«moderati» ma che applicano la sharia e l'oscurantismo come il califfo Abu
Bakr… È forse, questa scena nei saloni della reggia saudita, la prova della
vittoria finale dell'islam politico garantita dai petrodollari?
Dietro
le guerre sante, i martiri, gli attentati, un abile regista li ha utilizzati
come diversivo per far valere la sua arma segreta, il dono che Allah ha
nascosto nei loro deserti di sabbia… con cui hanno comprato il potere
economico, che per noi inesorabilmente modella quello politico.
È
il trionfo sunnita che Bin Laden ha invano sognato a colpi di stragi. Il
secondo passaggio di una rivoluzione che ha avviato Khomeini, l'eretico sciita,
dimostrando che Dio può portare al potere anche nel mondo moderno.
***
(Credits:
Estratto dell'introduzione di Domnico Quirico al
suo nuovo libro "Le quatrtro Jihad" edito
da Rizzoli)