INTERVISTA
CON L'AUTORE DI "NOI, IL POPOLO"
Make
America True Again! Claudio Gatti e la rivoluzione di
'We, the Peoples'
di Stefano Vaccara - La Voce di New York
NEW
YORK - Claudio Gatti vive da quasi mezzo secolo a New York e il suo sguardo
sull’America è rimasto irriducibilmente libero, refrattario a ogni mito
nazionale e a ogni narrazione consolatoria. Romano, giornalista investigativo
tra i più rigorosi della sua generazione, firma di inchieste che hanno segnato
il giornalismo italiano, Gatti torna oggi con un’opera che non è semplicemente
un libro di storia: è un atto di scavo identitario, un’indagine sulle radici
rimosse degli Stati Uniti.
Il
suo Noi, il popolo – terra dei nativi, lavoro dei neri, libertà
dei bianchi (Fuoriscena, 2025) arriva a pochi mesi dalle celebrazioni
del 250° anniversario della Dichiarazione d’Indipendenza, quando negli USA
infuria un’accanita guerra culturale sul passato, sul senso della Rivoluzione e
sulla natura stessa della democrazia americana. Una guerra che Donald Trump,
nel suo secondo mandato, ha radicalizzato tentando di riscrivere la storia in
chiave patriottica, ripudiando ciò che definisce “storiografia antiamericana”.
Gatti
ha scelto di fare l’opposto. Ha usato gli strumenti del giornalismo
investigativo, non della retorica: documenti, fonti trascurate, testimonianze
dei tre popoli che convivevano, e sì, anche si combattevano, sul continente
nordamericano nel 1776. I bianchi, gli indigeni, gli africani ridotti in
schiavitù. È la loro voce, non quella di Gatti, a ribaltare la narrazione
tradizionale: dai verbali dei trattati con i sachem
alle storie di schiavi fuggiaschi come Harry Washington, fino alle lettere
degli aiutanti di campo di George Washington.
Il
risultato è un libro che scuote: secondo Gatti, il mito fondativo dell’America
– libertà, eguaglianza, diritto alla ricerca della felicità – si regge su due
“peccati originali” consapevoli e strutturali: il genocidio degli indigeni e la
schiavitù dei neri. Non eccezioni alla democrazia americana, ma condizioni
necessarie alla sua esistenza. Una tesi che Gatti ricostruisce con un rigore
che non lascia scampo né all’agiografia patriottica né alla rimozione storica.
A
emergere non è un pamphlet anti-americano, ma un
lavoro profondamente americano nel metodo: risalire ai fatti, restituire la
parola ai protagonisti, contestare il potere attraverso la verità documentale.
Non a caso Gatti lo dice chiaramente: “Io ho scelto di essere americano”. E
proprio per questo ne indaga gli abissi, come fece con l’Italia raccontando mafia, corruzione, potere economico e
misteri sommersi.
Questo
libro, come la nostra intervista, arrivano in un momento in cui il movimento
MAGA del gran capo Trump, lungi dall’essere un’anomalia, secondo Gatti è il
prodotto coerente del DNA storico degli Stati Uniti: individualismo radicale,
violenza strutturale, razzializzazione del potere, rivendicazione proprietaria
della libertà.
Di
questo e molto altro abbiamo parlato con Claudio Gatti, partendo dalle domande
che aprono il suo libro: come è possibile che l’America abbia prodotto Trump? E
cosa ci dice questa storia “rimossa” sull’America che verrà?
Stefano
Vaccara: Claudio, in Italia sei famoso per le tue inchieste giornalistiche sul
potere italiano. Come nasce un libro di storia americana?
Claudio
Gatti – «C’è stato un
impulso giornalistico che mi ha spinto. Ho assistito alla vittoria di Donald
Trump, figura che come giornalista d’inchiesta newyorkese
mi era assolutamente familiare e il fatto che nel 2016 vinse l’elezione mi
pareva estremamente sorprendente. A quel punto mi sono domandato le origini non
solo di Trump, ma le origini del movimento che lui ha creato, questo MAGA».
La
tua inchiesta storica nasce dall’esigenza di capire alcune “patologie
americane” difficili da decifrare per un europeo: l’ossessione per le armi, la
violenza, la resistenza a ogni forma di welfare.
«Si
hanno un’origine storica e per scoprirla sono dovuto tornare al 1600 e al 1700.
Il MAGA non è una forma moderna di fascismo, ma un prodotto della tradizione
americana. Tendenze tiranniche ci sono sempre state, ma non fascistiche, anche
perché Trump al massimo può essere fascistoide… In realtà la cultura MAGA è una
cultura profondamente libertaria nel senso americano del termine, e cioè una
cultura del diritto individuale, una cultura darwinistica com’è quella
dell’America della frontiera e del mito americano».
Qual
è stata la scoperta più sconvolgente?
«Mi
sono reso conto che il mito stesso di una rivoluzione di un popolo che si arma
per combattere per la libertà e l’uguaglianza in realtà non era altro che un
mito. La rivoluzione ha avuto successo… proprio per via di quegli elementi che
noi adesso vediamo nel MAGA, e cioè questo atteggiamento individualistico e
profondamente razzista».
La
distanza quindi tra mito e realtà nel libro risulta abissale. E la vera storia
si scopre solo tornando ai documenti. Tu metti in risalto come durante la
Rivoluzione americana gli Stati non riuscissero a trovare abbastanza volontari
per l’esercito continentale. La soluzione?
«Gli
Stati del Nord Atlantico hanno risposto espropriando le terre indiane, che
venivano promesse a chi si arruolava… L’altra soluzione, trovata dagli Stati
del Sud, è stata quella di assegnare alle reclute non dei premi in denaro, ma
dei premi in schiavi neri».
Tutto
questo, spiega, condiziona ancora oggi le condizioni socio-economiche
degli americani. Citi numeri impressionanti che mostrano come gli Stati Uniti
siano ancora molto più simili a Paesi del Sud globale che alle democrazie
avanzate.
«Se
si guardano le statistiche si vede chiaramente che a spostare in alto il tasso
di povertà, la mortalità alla nascita, gli omicidi, le incarcerazioni… sono le
condizioni socioeconomiche e sanitarie della popolazione che è l’erede degli
schiavi importati dall’Africa».
Molti
storici americani progressisti hanno analizzato genocidio e schiavitù, ma dal
libro si evince che la storiografia non abbia ancora affrontato la questione
centrale: il ruolo strutturale di quei crimini nella nascita della democrazia.
«Il
genocidio degli indiani e la schiavitù dei neri non furono inconciliabili
contraddizioni… furono scelte assolutamente consapevoli ed elementi fondativi
della democrazia. E il motivo è semplice: senza quelle risorse, la giovane
Repubblica non avrebbe potuto sopravvivere né distribuire diritti politici ai
bianchi poveri. Io non esprimo il mio pensiero su quello che è successo, ma
faccio parlare letteralmente i protagonisti dell’epoca come se fosse un
documentario. Per gli indigeni, ho usato i verbali dei trattati. Per gli
afroamericani, le storie dei combattenti che cercarono la libertà “in nome
della libertà”. Per i bianchi, lettere, ordini militari, documenti politici».
Quali
sono le figure ignorate dalla narrazione nazionale che incarnano gli ideali
autentici di libertà?
«Sono
diverse, ma ricordo John Laurens, giovane della Sud Carolina, figlio di un
ricco proprietario terriero e di schiavi, che diventò assistente di campo del
generale George Washington e tentò di convincerlo a creare reparti di neri
liberati: un vero eroe. Poi Lewis Cook, un nativo guerriero diventato
colonnello dell’esercito continentale, ma alla fine della guerra fregato come
tutti gli indiani. Un altro nativo, Joseph Brant, leader che combatté con gli
inglesi e poi per i diritti degli indigeni. E poi la figura eccezionale di
Harry Washington, arrivato dall’Africa in catene, che diventò lo schiavo di
George Washington: una figura straordinaria, che nel 1776, anno della
dichiarazione d’indipendenza, scappa dalle terre del suo proprietario, combatte
a fianco delle giubbe rosse inglesi e poi, dopo, torna in Africa, in Sierra
Leone, dove questa volta, combattendo contro gli inglesi, ottiene finalmente la
libertà e l’indipendenza».
Quindi
per te sono loro gli eroi morali della Rivoluzione americana. Gli americani
sono pronti a una memoria condivisa?
«Secondo
me no, non sono pronti. Anche perché il passato ha assolutamente conseguenze
sul presente. Il progetto 1619 (dalla data dei primi schiavi arrivati in Nord
America) è stato completamente accantonato. E gli ordini esecutivi di Trump
mirano a imporre una storia patriottica che nasconda gli aspetti negativi.
Trump è espressione… delle grandi contraddizioni di questo Paese. Da una parte
è supportato dal popolo bianco, libertario e con ancora rigurgiti di razzismo,
ma dall’altra lui ha impulsi monarchici, aspetti tirannici in contraddizione
con quello che il suo popolo vuole. E poi c’è l’incognita Epstein: il suo
movimento MAGA potrebbe anche punirlo».
Cosa
rispondi a chi ti accuserà di antiamericanismo?
«Dopo
che avevo trascorso 15 anni in questo Paese, ho scelto di essere americano. Il
mio libro non distrugge gli ideali americani: fa conoscere gli ideali veri. Io
non ho detto che George Washington e Thomas Jefferson erano dei razzisti. Io ho
pubblicato quello che loro hanno scritto».
“We the Peoples”, ci spiega l’autore, sottolineando la s
che indica il plurale di “popoli” e come vorrebbe fosse intitolato
nell’edizione inglese ancora in cerca di un publisher americano, non mira a
demolire il mito americano, ma a fondarlo sulla realtà: «Vuole far conoscere
gli ideali e gli eroi veri dell’America».
***
(Stefano
Vaccara www.lavocedinewyork.com
- Giornalista e scrittore. Nato e cresciuto in Sicilia, laurea a Siena, master
a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America con Il Giornale di
Montanelli, America Oggi e USItalia weekly. Dal Palazzo di Vetro oggi racconta l’ONU dopo aver
fondato e diretto La Voce di New York dal 2013 a gennaio 2023)