'TUTTA
LA VERITA', LO GIURO'
La
bufala della Fallaci, Berlusconi e il parrucchino, Travaglio nel mirino di
Fassino. Ecco le memorie di Antonio Padellaro
di Franco Bechis - "Open"
Racconta
Antonio Padellaro che
molti anni fa Oriana Fallaci, già famosa e in quel momento star del settimanale
Europeo, fu spedita a New York a raccontare una strage di mafia. Arrivata nella
Grande Mela, Fallaci che poco o nulla sapeva della mafia negli States chiese
lumi al capo dell’ufficio americano della Rizzoli, che le spiegò: «Sono stati i
giovani turchi», alludendo alla nuova e spietata generazione di mafiosi in
lotta contro i vecchi capi dell’epoca, i vari Joe Bonanno e Lucky Luciano. La
Fallaci si fidò, ma non capì l’allusione e prese l’informazione alla lettera.
Ne uscì un reportage sull’espandersi a New York di una sconosciuta mafia turca
che stava scalzando italiani e irlandesi. Una bufala. Ma essendo Fallaci a
scriverne, nessuno osò ipotizzare l’errore. Anzi, i direttori dei giornali
fecero una ramanzina perché nessuno di loro aveva capito l’esplosione di questa
sedicente mafia turca.
L’assassinio
di Pasolini: «Scrivi che sono stati i fascisti»
Quello
sulla bufala della Fallaci è uno degli episodi più divertenti di Solo la
verità, lo giuro, un collage di 50 anni di esperienza da giornalista che il
fondatore del Fatto Quotidiano ha scritto per Piemme. Oriana deve essere
stata un rapporto difficile di Padellaro, e spunta spesso fra i ricordi, come
nel giorno in cui fu ucciso Pier Paolo Pasolini. Delitto ancora oggi pieno di
misteri, ma subito la Fallaci, che nel frattempo era diventata firma di punta
del Corriere della Sera, ebbe una sua idea chiara, manifestata in una
sorta di ordine dato al telefono allo stesso Padellaro: «Sono stati i fascisti.
Scrivilo, in prima pagina». Nessun elemento però emergeva a sostegno di questa
tesi mentre gli inquirenti avevano raccolto subito la confessione di Pino
Pelosi, che negli anni avrebbe più volte ritrattato, ma alla fine sarebbe stato
condannato per quel delitto. Padellaro non scrisse né titolò sui fascisti e da
quel giorno l’Oriana sdegnata non gli avrebbe più
rivolto la parola.
La
furia di Fassino per la rubrica di Marco Travaglio
Le
memorie di Padellaro uniscono appunti sparsi su decenni di giornalismo. E i
ricordi più sepolti nel tempo si mischiano a quelli più recenti che raccontano
all’inizio di ogni capitolo la fondazione del Fatto Quotidiano con Marco
Travaglio e i momenti chiave di quella nuova esperienza. I due giornalisti
si erano conosciuti molto tempo prima (entrambi hanno lavorato per L’Espresso)
e quando Padellaro diventò direttore de L’Unità all’epoca organo
politico dei Democratici di sinistra (Ds), offrì a Travaglio una rubrica
quotidiana (Bananas) al fulmicotone sulle gesta di Silvio
Berlusconi. Racconta l’autore: «Ogni qualvolta Travaglio scriveva qualcosa
contro Berlusconi, non in linea con qualche inciucio della sinistra, il mattino
successivo, cascasse il mondo, squillava il telefono e un’apprensiva voce
femminile scandiva il mio incombente destino: “Ti passo Piero Fassino (allora
segretario dei Ds, ndr)”». E la telefonata era
piena di veleni sul suo modo di dirigere il giornale di partito. Poi qualcuno
disse a Padellaro che Fassino soffriva di pressione bassa e per questo al
mattino era più acido. Soluzione: inventarsi scuse per non rispondergli mai in
quelle ore della giornata, richiamandolo il pomeriggio quando «Piero rispondeva
dimentico del motivo che lo aveva scatenato di buon mattino».
Gli
imbarazzi nell’incontro con l’avvocato dei misteri di Sicilia e Giorgio
Almirante
Quando
ero ancora un ragazzino (ho qualche anno meno dell’autore del libro), ricordo
bene un paludatissimo Padellaro da capo della redazione romana del Corriere
della Sera nelle tribune politiche della Rai ancora in bianco nero a
intervistare i leader di partito. Toni garbati, domande mai pungenti: lo stile
dell’epoca. Chi le guardasse oggi faticherebbe a riconoscere la stessa persona,
salvo per il garbo che continua ad accompagnare stilettate e pungenti
reprimende di chi è passato dall’altra parte della barricata. Eppure, quelle
due vite (il giornalista paludato nato in buona famiglia con radici anche nel
fascismo e il Che Guevara dei nuovi tempi) spesso si scontrano nella sua
coscienza o emergono contraddittorie negli incontri imprevisti. «Ma lei non è
il figlio o il discendente di…?», emergono con un certo imbarazzo più volte fra
gli appunti ma due volte in particolare. La prima durante un colloquio con
«l’avvocato dei misteri della Sicilia», Vito Guarrasi, l’uomo che firmò in
Libia per conto dei siciliani gli accordi sullo sbarco degli americani a
Pachino (lo conobbi anche io e per qualche anno fu mia fonte preziosa grazie a
una lontana parentela che scoprimmo). La seconda durante una intervista a
Giorgio Almirante, il segretario del Msi che cercò di fare emergere le comuni
radici familiari.
Il
parrucchino (falso) e la rabbia di Silvio Berlusconi
È
una storia di contraddizioni quella del Padellaro giornalista, divulgate con
grande franchezza in queste pagine. Contraddittorio avere amato e stimato uno
dei più grandi giornalisti e all’epoca direttore del Corriere della Sera,
Franco Di Bella, causandone però involontariamente la fine professionale
essendo stato Padellaro a portare in redazione i famosi elenchi della P2 in cui
Di Bella risultava coinvolto. Contraddittorio anche il rapporto con Berlusconi,
di cui riconosceva il fascino e di cui lo colpiva la cortesia nonostante la
pubblicazione di paginate di inchieste, atti giudiziari e commenti roboanti.
Una sola volta però se la prese con lui il Cavaliere, e non per gli atti di
Ruby Rubacuori o per le campagne al curaro del Fatto quotidiano. Quel
giorno arrivò la furia del Cavaliere: «Direttore, avete pubblicato una
menzogna!». Padellaro gli chiese: «Quale, presidente?». E Berlusconi rispose:
«Avete scritto che indosso un parrucchino. La invito qui da me e l’autorizzo a
verificare con le sue mani se i miei capelli sono veri o finti. Dopodiché mi
aspetto delle pubbliche scuse».
Senza
Cav terremoto anche alle copie del Fatto quotidiano
Berlusconi
è stato un faro nella seconda vita professionale di Padellaro, tanto è che quando la sua luce si spense con il brusco passaggio di
consegne a Mario
Monti nel 2011 il direttore del Fatto Quotidiano teme per le
straordinarie fortune parallele a quelle del Cav
della sua creatura editoriale. Il racconto che fa di quelle ore lo testimonia
con grande sincerità. «Ricordo», scrive Padellaro, «che nel 2011, la sera della
sua uscita definitiva da Palazzo Chigi e dell’avvento del molto sobrio Mario
Monti vengo accolto in redazione da una specie di festicciola con brindisi e
champagne inneggiante alla caduta del despota. M’incazzo di brutto: siete
davvero scemi, non capite che stiamo tagliando il ramo su cui per anni siamo
stati seduti comodamente? Il Fatto continua a vendere bene,
intendiamoci, ma non più come prima. I conti sono in regola ma la navigazione
tra costi crescenti e introiti calanti si fa meno tranquilla…».
***
(Servizio
di Franco Bechis direttore di "Open")