Te lo do io
il "Ponte". Di scartoffie. I suoi costi saliti dell’87%
di
Sergio Rizzo - L'Espresso
ROMA - C’è un
sondaggio fatto un paio di mesi fa secondo il quale il 51 per cento degli
italiani sarebbe favorevole al ponte sullo Stretto di Messina, pensate. Ma ce
n’è un altro del 2004, quando si era a un passo dalla gara d’appalto, per cui
solo il 16,4 per cento degli intervistati credeva che l’avrebbero fatto sul
serio. Profeticamente avevano ragione loro, quasi avessero intravisto
l’incredibile catena di errori e pasticci che hanno segnato l’ultimo quarto di
secolo.
Solo
una cosa, finora, pare assodata. Che l’opera, se mai si farà, sarà intestata a
Silvio Berlusconi come l’aeroporto di Malpensa. Il Cavaliere ha battuto ogni
altro concorrente. Sconfitto Carlo Magno, candidato nel 1998 dal presidente
della Regione Calabria Giuseppe Nisticò. Surclassato l’ex segretario socialista
Bettino Craxi, proposta avanzata nel 2002 anche da sua figlia Stefania che
Antonio Di Pietro derubricò a «una burla», propugnando al posto il nome del
magistrato vittima della mafia Rosario Livatino. Accantonati gli «Italiani nel
mondo», preferiti dal ministro Pietro Lunardi. Sbaragliato San Francesco di
Paola, protettore dei marinai che attraversò lo stretto sul proprio mantello,
indicato dal vicecapogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera Alfredo
Antoniozzi. Annichilito perfino Giuseppe Garibaldi, per cui si è speso con una
lettera alla premier Giorgia Meloni nientemeno che Francesco Garibaldi-Hibbert, figlio di Anita Garibaldi, pronipote dell’eroe dei
due mondi.
Forza Italia
ha voluto rivendicare l’intitolazione a Berlusconi con una delibera del
Consiglio nazionale il primo ottobre 2023, a tre mesi dalla scomparsa del suo
leader e fondatore. Che però, fosse stato per lui, avrebbe fatto appendere sui
giganteschi piloni una targa per Ugo La Malfa. «Il ponte è un omaggio reso a
lui e alla sua fede occidentale», dice al centenario della nascita del leader
repubblicano.
Corre l’anno
2003, e Berlusconi è ormai il principale sponsor del ponte. Per le elezioni del
2001 è andato da Bruno Vespa per firmare il contratto con gli italiani,
segnando sulla cartina le grandi opere della legge obiettivo. Compreso, con
entusiasmo, il ponte sullo Stretto. Pochi però ricordano le sue titubanze di
qualche anno prima. Il 9 maggio 1994 a felicitarsi perché il Cavaliere
«parlando da leader designato ha smentito che nel suo programma di governo
figurasse il ponte sullo Stretto», è il deputato di Forza Italia Amedeo
Matacena, della famiglia che gestisce i traghetti fra Messina e Villa San
Giovanni. Irritato perché «è sempre stato privilegiato il ponte a scapito del
tunnel». Dieci anni prima suo zio Elio ha fondato una società, Ponte di Archimede,
che porta avanti l’idea di un tunnel «alveo», cioè
sospeso nell’acqua a una certa profondità per collegare le due sponde
sfruttando la spinta idrostatica. Idea però ormai velleitaria: grazie alla
forza del partito del cemento il ponte ha vinto fin da subito sul tunnel.
La prima legge
che gli apre la strada è del 27 marzo 1968, ultimo governo di Aldo Moro. Giorni
caldissimi. Scoppia il Sessantotto e le Camere sono già sciolte per le elezioni
politiche del maggio seguente. La legge stanzia 700 milioni di lire, 21 milioni
di euro di oggi, per un concorso internazionale di idee entro marzo 1969. Si
presentano in 143 e i vincitori ex aequo sono sei. Fra questi un solo ponte a
campata unica sorretto da piloni alti 600 metri, di progettisti italiani: la
tipologia che verrà poi scelta. Ma c’è anche un tunnel sospeso a mezz’acqua, di
progettisti inglesi: schema che sarà poi ripreso da Matacena e dall’Eni.
La partita
sembra perciò ancora aperta. A spostare l’ago della bilancia ci pensa il
governo di Emilio Colombo nel 1971, che fa approvare il 17 dicembre una legge
con la quale viene creata una società pubblica per gestire l’affare. Non si
parla di un ponte, ma di un assai più generico «attraversamento stabile» del
braccio di mare fra Scilla e Cariddi. Però la società non vede la luce che
dieci anni dopo, nel 1981. E si capisce subito che la sorte del tunnel è
segnata. Dominus è Gianfranco Gilardini: animatore del Gruppo ponte di Messina
che è, appunto con il progetto di un ponte, fra i vincitori ex aequo del
concorso del 1969. La legge istitutiva della società Stretto di Messina spa
stabilisce inoltre che il 51 per cento è dell’Iri. E la quota finisce in mano
all’Italstat di Ettore Bernabei, allora potentissimo
factotum delle concessioni pubbliche. Regna il cemento e non c’è opera pubblica
che sfugga al controllo della società statale sotto l’egida Dc che governa
incontrastata quel regno.
A nulla
servono gli sforzi dell’Eni, che gravita invece nell’orbita politica
socialista, e dove nel frattempo gli esperti di progetti sottomarini si sono
dati molto da fare. L’ipotesi di far passare treni e auto in una galleria,
piuttosto che su un ponte sospeso a 80 metri d’altezza, è derubricata a un puro
esercizio di stile. Con un grave difetto: il fatto è che, a differenza di un
ponte monumentale, un tunnel è invisibile. Invece un’opera così politicamente
importante si deve vedere.
È il ponte,
dunque, che s’ha da fare. Ne è consapevole anche il presidente dell’Iri Romano
Prodi, che il 7 settembre 1985 annuncia a Panorama: «I lavori del ponte
cominceranno al più presto». Quando però nel 2001 si apre l’era Berlusconi e le
condizioni politiche sembrano ideali, cominciano i pasticci.
Mentre il
ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi giura che i cantieri saranno
aperti «nel primo semestre 2004», ci vogliono quasi cinque anni per fare la
gara. Vince non a sorpresa il consorzio guidato da Impregilo. Ma per la firma
del contratto bisogna aspettare chissà perché altri sei mesi, il 27 marzo 2006.
Non un giorno qualsiasi. Mancano meno di due settimane alle elezioni politiche,
e alla vittoria annunciata dell’Unione guidata da Prodi, che in campagna
elettorale ha già decretato il blocco dell’opera. Profetiche, quel giorno, le
parole della senatrice dei Verdi Anna Donati: «Questa è una grave forzatura.
Sarebbe stato meglio attendere le indicazioni del nuovo governo, anziché
assicurare subito un regalo ad Impregilo a spese dei contribuenti». Una fin
troppo banale questione di galateo istituzionale, che però avrebbe evitato una
mostruosa lite legale capace di complicare ancora di più le cose.
La macchina si
arresta. Ma il governo Prodi dura appena due anni e al ritorno di Berlusconi
potrebbe ripartire di slancio. Il nuovo ministro delle Infrastrutture Altero
Matteoli garantisce che i lavori inizieranno nel 2009 e che «il ponte non ci
costa una lira perché si fa tutto in project financing. Come previsto», precisa
nel 2011, «dal piano finanziario allegato al progetto definitivo». Il progetto
definitivo a quel punto c’è, ma sta finendo anche il quarto governo Berlusconi.
E altri tre anni e mezzo non sono bastati ad aprire i cantieri per una gara
aggiudicata dal medesimo governo ben sei anni prima. Poi un bel giorno ecco il
suicidio. Il viceministro delle Infrastrutture Aurelio Misiti avalla in
Parlamento una mozione dipietrista che revoca i finanziamenti pubblici per il
ponte.
Non bastasse,
Forza Italia non si oppone alla successiva tagliola imposta dal governo di
Mario Monti, che priva di validità il contratto con il general contractor. Né
alla decisione del governo di Enrico Letta, sostenuto anche dal centrodestra,
che mette in liquidazione la società Stretto di Messina con la tassativa durata
per legge di un solo anno della procedura.
Liquidatore è
Vincenzo Fortunato, abilissimo ex capo di gabinetto di Giulio Tremonti e
Antonio Di Pietro. Che compie un miracolo. Fa durare la liquidazione dieci anni
anziché uno. Con il risultato che per rimettere in moto il ponte, dopo che la
destra nel settembre 2022 rivince le elezioni, basta riattivare la società
concessionaria. Lo fa un notaio, Alfredo Maria Becchetti, che incidentalmente è
candidato, senza fortuna, alle ultime politiche con la Lega di Matteo Salvini:
colui che più di ogni altro, dopo averlo in passato contestato, adesso vuole
fare quel benedetto ponte.
Nemmeno la
resurrezione della Stretto di Messina, però, aiuta a sbloccare la situazione.
Trascorre inutilmente un altro triennio, e fanno almeno 11
anni a più riprese, sempre sotto il segno della identica maggioranza politica e
dello stesso management nominato da quella maggioranza, senza venirne a capo. E
non può essere un caso. Fra promesse mirabolanti di centinaia di migliaia di
posti di lavoro ora si mette di mezzo pure la Corte dei conti. Ma se lo
potevano aspettare. Come si può considerare valido un contratto aggiudicato
vent’anni fa all’equivalente attuale di 5,6 miliardi salito ora (delibera Cipess) a 10,5 miliardi, con un aumento reale dell’87,5 per
cento, mentre le regole Ue recepite dall’Italia impongono una nuova gara in
caso di incrementi superiori al 50 per cento? Soprattutto, se nel 2005 il costo
dell’appalto fosse stato interamente a carico dello Stato anziché dei privati,
come (Matteoli dixit) prevedeva il piano finanziario dell’epoca, la gara non
avrebbe avuto un diverso svolgimento magari con altri concorrenti? Si potrebbe
andare avanti con le cose che non tornano. E per essere l’ennesimo sgambetto
dei giudici forse è un po’ troppo.
***
(Sergio
Rizzo www.lespresso.it
- La sua carriera giornalistica è iniziata nelle redazioni di Milano
Finanza, Il Mondo e Il Giornale.
Dopo essere approdato al Corriere
della Sera, Rizzo si è dedicato ad inchieste sui malaffari italiani,
diventando una delle firme del quotidiano milanese. È coautore con Gian
Antonio Stella del libro-inchiesta sul mondo politico
italiano La
casta che, con oltre 1 200 000 copie e ben 22 edizioni, è
stato uno dei volumi di maggior successo del 2007 e ha aperto
un vasto dibattito sulla qualità della classe dirigente nazionale e sul suo
rapporto con i cittadini-elettori. Il 14 giugno 2017 è stato
annunciato il suo passaggio dal Corriere della Sera a La
Repubblica, in qualità di vicedirettore. L'11 novembre 2021 lascia La
Repubblica, dichiarando di essere stato costretto ad andare in pensione)