Quel
feeling tra toghe e ministero. Chi è Giusy Bartolozzi
di
Sergio Rizzo -L'Espresso
ROMA - Ah, se
gliele aveva cantate! Quel 27 maggio del 2020, alla Camera, Giuseppa Lara
(detta Giusi) Bartolozzi si mostrava irrefrenabile. Infilzava senza pietà
il ministro della Giustizia grillino, Alfonso Bonafede, reduce da un
lungo intervento al question time, con una serie di
stoccate. La più dolorosa: «Il ministro adesso rilancia progetti di presunta
incompatibilità per i magistrati eletti a cariche politiche, mentre nulla dice,
come dovrebbe, sulla incompatibilità di coloro i quali, pur non rivestendo
ruoli politici di natura elettiva, svolgono incarichi a stretto contatto con la
politica. Ma non è allora incompatibilità anche questa?».
A chi era
diretto l’affondo di Giusi Bartolozzi, giudice della Corte d’Appello eletta
deputata per Forza Italia? Forse a quei suoi colleghi senza più seggio
parlamentare riparati in via Arenula con la scusa di dare supporto all’apparato
ministeriale? Chissà. Fra i cento e più magistrati saldamente innestati nella
macchina governativa ce n’era almeno una proveniente dal Parlamento: Doris
Lo Moro, passata dal Partito democratico a Liberi e Uguali, che, dopo otto
anni di sindaca a Lamezia Terme, cinque nel Consiglio regionale della Calabria
e poi due legislature alla Camera e in Senato, aveva deciso di non
ricandidarsi. E il ministro dem, Andrea Orlando, predecessore di
Bonafede, l’aveva volentieri accolta al dipartimento Affari di giustizia del
ministero. Tuttavia, i magistrati ex parlamentari in realtà sarebbero stati
due, se Bonafede non si fosse opposto all’arrivo di Anna Finocchiaro, due volte
ministra e 31 anni di fila fra Montecitorio e Palazzo Madama.
E si può stare
certi che, al tempo di quella sua intemerata pubblica contro «coloro i quali,
pur non rivestendo ruoli politici di natura elettiva, svolgono incarichi a
stretto contatto con la politica», Giusi Bartolozzi sinceramente ignorasse
che un giorno si sarebbe trovata nella stessa situazione da lei così criticata.
Ma la politica è l’arte del possibile, per non dire che in questo momento
storico la coerenza non sembra dote così popolare nel Palazzo.
Siciliana di
Gela, giudice a Gela e quindi a Palermo, prima di approdare alla Corte
d’Appello di Roma, eletta alla Camera in Sicilia e incidentalmente consorte
dell’ex vicepresidente della giunta regionale siciliana, Gaetano Armao,
è ritenuta più influente dell’attuale ministro Carlo Nordio.
Dopo le
elezioni vittoriose del centrodestra, Giusi Bartolozzi segue Nordio al
ministero. Due anni prima era stata lei, allora deputata componente
dell’Antimafia, a volere il magistrato trevigiano alla commissione parlamentare
come consulente. E quando Nordio si era dimesso per protesta con l’uscita del
grillino Nicola Morra sulla presidente della Calabria, Jole Santelli,
gravemente malata, Giusi Bartolozzi l’aveva difeso pubblicamente: «La
commissione Antimafia ne esce completamente delegittimata».
Nel novembre
2022 il sodalizio si ricostituisce, anche se a ruoli formalmente invertiti. Ma
non bisogna aspettare molto per capire che alla ex deputata forzista quel ruolo
sta piuttosto stretto. Passa un anno e la coabitazione con il capo di
Gabinetto, il magistrato Alberto Rizzo, è alla frutta. E lei lo soppianta,
meritandosi rapidamente su qualche giornale l’appellativo (questo, sì, maligno)
di «zarina» del ministero.
Per il
deputato dei Verdi, Angelo Bonelli, «Giusi Bartolozzi è il vero ministro
della Giustizia. Nordio è solo una comparsa: è lei che costruisce le strategie
politiche e Nordio si limita a prenderne atto». Nello sconcertante episodio
della liberazione dell’aguzzino libico Osama Almasri
le frecciate dell’opposizione fanno parte del gioco. Ma questa non è una
semplice frecciata. È l’innesco dei siluri che arrivano da tutte le parti.
Mentre l’onda monta. Il Movimento 5 Stelle sostiene, «documenti alla mano», che «già il 19 gennaio le
informazioni, il mandato di arresto, i documenti ufficiali erano in possesso
degli uffici competenti del ministero. E soprattutto: la capo di Gabinetto
sarebbe stata avvisata, sarebbe intervenuta, avrebbe parlato con funzionari e
partecipato a una video-riunione con i servizi segreti».
Vedremo come
finirà. Ma la vicenda per cui l’ex deputata Bartolozzi non è indagata, a
differenza di Nordio e del suo collega dell’Interno, Matteo Piantedosi, è la
spia della situazione venutasi a creare in via Arenula. Davvero curiosa,
nonostante Nordio si ostini a ripetere che la sua capo di Gabinetto non avrebbe
fatto altro che agire in seguito a suoi ordini.
Sullo sfondo
di questa storia si delinea certamente l’anomalia di un ministero dove non è
chiaro chi manovri realmente le leve del potere. Ma che è il risvolto di
un’altra anomalia, ben più profonda e mai risolta: quella del rapporto fra
magistrati e politica. Altro che l’inutilissima riforma costituzionale per
la separazione delle carriere, che, come sanno tutti, sono nei fatti già
abbondantemente separate. Diversamente, per dirne una, gran parte dei processi
penali (fino al 40 per cento) non si concluderebbe con l’assoluzione degli
imputati.
Vero è che
nelle ultime elezioni politiche generali la presenza dei magistrati si è
drasticamente ridotta. Nelle undici legislature della cosiddetta Prima
Repubblica vennero eletti complessivamente 125 magistrati, con una prevalenza
di tre quarti dei partiti di governo, a cominciare dai 72 giudici eletti con la
Dc. Nelle otto legislature della presunta Seconda Repubblica sono stati invece
128, con una prevalenza del centrosinistra: 60 per cento circa. Ma anche con
una flessione ormai apparentemente inarrestabile. Dai 18 magistrati eletti nel
2013 si è scesi a quattro nel 2018 e poi a tre, per giunta tutti pensionati:
Nordio di Fratelli d’Italia, Simonetta Matone della Lega e Roberto
Scarpinato del M5S.
La ragione ha
a che vedere con i limiti sempre più rigidi al rientro dei giudici alla fine
del mandato parlamentare. Anche qui, però, non sono mancati i colpi d’ingegno
per aprire un po’ di paracadute ai poveri magistrati privati del seggio.
Prendete, per
esempio, l’incompatibilità denunciata da Giusi Bartolozzi nel 2020, giusto un
paio d’anni prima di viverla in prima persona. Ossia quella di chi non è stato
più eletto, ma continua ad avere incarichi a stretto contatto con la politica,
continuando di fatto ad avere un ruolo politico mascherato. Sapete come l’ha
risolta la legge 71 del 2022 che porta il nome della ministra Marta Cartabia,
approvata poche settimane prima della fine della legislatura? Facilissimo:
rendendo compatibile l’incompatibilità.
L’articolo 19
prevede che i magistrati ex parlamentari nazionali ed europei, ex consiglieri
regionali, ex presidenti di Regione, ex sindaci o ex consiglieri comunali siano
«collocati fuori ruolo presso il ministero di appartenenza o, per i
magistrati amministrativi e contabili, presso la presidenza del Consiglio».
Cioè, esattamente «a stretto contatto con la politica», per citare sempre la
capo di Gabinetto di Nordio in una vita precedente. In alternativa, dice sempre
l’articolo 19, i magistrati usciti dalla politica possono andare negli organi
di autogoverno, quelli che dovrebbero sancire l’indipendenza delle
magistrature.
E proprio così
hanno fatto i due magistrati eletti nel 2018 e non riconfermati. Giusi
Bartolozzi è al ministero della Giustizia, mentre Cosimo Ferri di Italia
Viva è vicepresidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria.
Va bene che la cosa in teoria non li riguarda, perché l’articolo 19 si applica
ai magistrati il cui incarico politico sia iniziato dopo l’entrata in vigore
della legge. Ma che male c’è a portarsi avanti sul lavoro?
***
(Sergio
Rizzo www.lespresso.it -
La sua carriera giornalistica è iniziata a Milano Finanza e il Mondo. Dopo
essere approdato al Corriere della Sera, Rizzo si è dedicato ad inchieste sui
malaffari italiani, diventando una delle firme più autorevol
del quotidiano milanese. È coautore con Gian Antonio Stella del libro-inchiesta
sul mondo politico italiano La casta che, con oltre 1
200 000 copie e ben 22 edizioni, è stato uno dei volumi di maggior successo del
2007 e ha aperto un vasto dibattito sulla qualità della classe dirigente
nazionale e sul suo rapporto con i cittadini-elettori. Il 14 giugno 2017 è
passato dal Corriere della Sera a La Repubblica, in
qualità di vicedirettore. L'11 novembre 2021 lascia La Repubblica, dichiarando
di essere stato costretto ad andare in pensione)