Vincent
Bolloré, il miliardario francese che non è capace di costruire una carriera
politica, ma può distruggerne una
di
Clément Lacombe e Camille Vigogne Le Coat - Le Nouvel
Observateur
PARIGI -
Jordan Bardella è entrato nell’hotel dal cancello su boulevard de Montmorency,
all’estremità del 16° arrondissement di Parigi. I
passanti non possono non notare la bandiera bretone, ornata da due cuori
vandeani, fieramente issata sulla facciata dell’edificio in pietra. È qui che
il miliardario Vincent Bolloré ha installato i suoi uffici, dopo aver fatto
alzare i cancelli e installare telecamere di sorveglianza.
Dalla sua
finestra, a volte può osservare il suo amico Nicolas Sarkozy, che abita poco
lontano, mentre fa jogging. La sua casa si trova dall’altra parte del giardino,
a Villa Montmorency, un’enclave privata per miliardari dove i suoi vicini si
chiamano Arnaud, Lagardère o Laurent Dassault.
“Volevo
raccontarvi perché ho scritto questo libro”, inizia Bardella, nel
salotto-biblioteca al piano terra. Di fronte al presidente del Rassemblement
National, in quel giorno di primavera del 2024, Vincent Bolloré si mostra
interessato. È stato lui a volere pubblicare il primo libro del probabile
candidato di estrema destra alle elezioni presidenziali del 2027, in una delle
case editrici che ha appena acquistato, Fayard.
Qualche mese
dopo, l’imprenditore bretone approverà personalmente il piano di comunicazione
XXL che accompagnerà l’uscita in libreria di Quello che cerco,
contribuendo al suo enorme successo (204.544 copie vendute fino ad oggi). Alla
sua uscita, il presidente del RN non ha dimenticato di inviargli una copia
autografata. Sa bene cosa rappresenta l’industriale, tra le 10 più grandi
fortune francesi. Non ignora che la destra e una buona parte del governo si
affrettano a casa sua, sperando di ottenere una copertura mediatica favorevole
sulle reti del suo gruppo.
In questa
strada tranquilla, a inizio giugno si è visto Éric Ciotti uscire dall’hôtel particulier per raggiungere
la sua Mégane con autista. Un anno prima, il presidente dei Républicains
di allora era già venuto a cercare il sostegno di Vincent Bolloré, all’indomani
dello scioglimento del 2024, come aveva raccontato Le Monde, poco prima di
annunciare clamorosamente il suo sostegno a Marine Le Pen. Ma non è l’unico a
varcare quella porta.
I ministri Gérald Darmanin e Sébastien Lecornu fanno visita almeno una volta all’anno all’uomo
d’affari, così come il leader dei Républicains
all’Assemblea, Laurent Wauquiez, e le figure
dell’estrema destra Éric Zemmour e Sarah Knafo.
«Forse non è
capace di costruire una carriera politica, ma è capace di distruggerne una»,
giudica in privato la ministra delegata Aurore Bergé, che anche lei ha varcato
il cancello di boulevard de Montmorency.
A destra e
all’estrema destra, il patron reazionario è un mito, un padrino di cui si
cercano le buone grazie, insieme a quelle del suo impero mediatico: CNews, Europe 1, Le Journal du Dimanche e le JDD News, e ora anche il gruppo editoriale
Hachette (Fayard, Grasset, Stock…). Bruno Retailleau
— che condivide con lui la fede e il conservatorismo — non ha esitato a
invitarlo a pranzo al Ministero dell’Interno, in piena campagna interna per la
presidenza dei Républicains.
Edouard
Philippe, al contrario, è stato investito da una tempesta di 48 ore sulle reti
del gruppo dopo aver osato affermare pubblicamente che il Paese non può fare a
meno dell’immigrazione. Si è mai visto un miliardario così potente? Vincent
Bolloré non si limita a possedere i media, ne controlla anche la linea
editoriale nei minimi dettagli. «Legge tutto, ascolta tutto, può commentare il
palinsesto di Europe 1 alle sei del mattino nel weekend», conferma Arnaud
Lagardère nei suoi uffici in rue de Presbourg, il cui
gruppo è ormai passato sotto il controllo del miliardario bretone.
Seduttore e
casalingo, devoto e provocatore, fedele e rancoroso… Bolloré resta un mistero,
anche per chi lo frequenta da mezzo secolo. Dopo aver passato quattro decenni a
costruire un impero, dalla Bretagna al Togo passando per Parigi, dalla carta
alla logistica fino ai media, l’ex presidente di Vivendi, oggi 73enne, si interessa ormai solo a due cose: Cristo e la
salvezza della Francia.
Vorrebbe
“ricristianizzare” il Paese, per evitarne il declino e l’islamizzazione, le sue
due ossessioni. A un vecchio conoscente davanti al quale ha espresso la sua
paura per una “grande sostituzione”, ha detto: «Tra trent’anni, la Francia non
sarà più la Francia che ho conosciuto e che amo. E questo, non posso
accettarlo».
Per salvare il
Paese della sua infanzia, Vincent Bolloré cerca un candidato provvidenziale,
con lo sguardo rivolto alle prossime elezioni presidenziali. «La sua angoscia è
che non emerga nessuno nel 2027. O peggio, che ci siano quattro o cinque nomi a
destra», sospira un suo intimo.
Per evitare
l’affollamento, l’uomo d’affari si impegna a far dialogare la destra e
l’estrema destra. Il 24 giugno, i suoi media hanno organizzato una grande
serata al Casino de Paris, pomposamente chiamata “Il Vertice delle Libertà”, in
collaborazione per l’occasione con un altro miliardario conservatore,
Pierre-Edouard Stérin. L’occasione per far dialogare
Jordan Bardella, Éric Ciotti, Sarah Knafo e Nicolas
Dupont-Aignan. Marine Le Pen, invece, brilla per la
sua assenza.
«Vincent
Bolloré deve capire che non sono i padroni della stampa a scegliere i
presidenti della Repubblica!», aveva dichiarato nel 2021. Quattro anni dopo, il
proprietario di Vivendi considera ancora la figlia di Jean-Marie Le Pen come un
pericolo per l’economia, quasi “una di sinistra”, si sente dire. Il che non gli
ha impedito di mettere il suo gruppo al servizio del partito di estrema destra
nelle ultime elezioni legislative.
Anche il
miliardario ha disertato quel grande raduno dell’estrema destra. Aveva qualcosa
di più importante quella sera: una messa in onore dei trent’anni di sacerdozio
di un prete, Guillaume Seguin. In abito grigio e camicia azzurra, ha
parcheggiato la sua Mercedes C 400 davanti alla chiesa di Notre-Dame-de-l’Assomption de Passy, nel 16°
arrondissement di Parigi.
Per un’ora e
mezza, i presenti hanno intonato canti in latino e pregato in ginocchio durante
l’eucaristia, come si faceva sessant’anni fa, prima del Concilio
Vaticano II. Nella chiesa, il settantenne ha ascoltato don Seguin
parlare del “compimento della salvezza” e ironizzare sulla politica “inclusiva”
della Chiesa. Il sacerdote ha parlato anche della “luce” trovata nelle
“tenebre” degli ultimi anni. Un riferimento alle “misure restrittive” prese
contro di lui dalla diocesi di Parigi per cinque anni, fino a ottobre prossimo
— divieto di confessione e accompagnamento spirituale —, dopo due accuse di
violenze sessuali durante confessioni (l’abbé le ha
sempre contestate e non ha risposto a Le Nouvel Obs).
Sanzioni che non hanno intaccato la sua vicinanza con Vincent Bolloré.
La fede del
bretone si fa ogni giorno più fervente, con il peso degli anni e di una salute
diventata fragile. La religione cattolica è da sempre al centro della vita dei
Bolloré, una famiglia la cui massima è: “In ginocchio davanti a Dio, in piedi
davanti agli uomini”. È risaputo che una cappella è nascosta all’interno del
loro maniero di Ergué-Gabéric, nel Finistère. Con i
suoi amici, capita che Vincent Bolloré parli della “Legenda Aurea”, un’opera
del XIII secolo dedicata alla storia dei santi. Oppure evochi ciò che potrà
dire a Dio, il giorno del Giudizio Universale.
La religione è
utile anche per questo seduttore incallito che, trent’anni fa, ha lasciato la
madre dei suoi quattro figli per vivere con la sorella di quest’ultima. «Sono
molto devoto, perché ho molte cose da farmi perdonare», diceva talvolta
sorridendo colui che ha trovato nella confessione uno strumento su misura. Nel
suo entourage, nessuno si azzarda più a ricordare quella frase davanti a chi
detesta più di ogni altra cosa la blasfemia. «Vincent è ormai cattolico
all’estremo», giudica uno di loro. «È diventato mistico».
I suoi
interlocutori non sussultano più quando lo sentono parlare di angeli, del
diavolo, delle “FDB” (forze del bene) o delle “FDM” (forze del male).
In
quest’ultima categoria rientrano per lui la sinistra, la stampa, la giustizia,
i sostenitori dell’eutanasia attiva…Ha preso l’abitudine di respingere le
critiche con un gesto della mano, o di riderne, come quando amici di un tempo
gli dicono che Le JDD è ormai “illeggibile” (l’ex ministro Dominique Bussereau), o che è “diventato Satana per la sinistra”
(l’ex sindaco di Quimper Bernard Poignant).
«Un’opera è
buona solo se suscita l’opposizione del diavolo», afferma talvolta, questa
volta senza scherzare, colui che se ne infischia della propria reputazione.
Agli amici di un tempo, Vincent Bolloré preferisce ormai la compagnia di uomini
in talare: don Seguin, dunque, ma anche don Grimaud,
l’altro ecclesiastico della sua crociata sacra. Ufficialmente in pensione dalla
diocesi di Parigi, questo sostenitore di una Chiesa tradizionale è diventato il
principale gestore delle opere di carità di Bolloré.
È a quest’uomo
autoritario che il miliardario ha affidato la gestione del Foyer Jean-Bosco, un
magnifico rifugio di pace nascosto nel 16°
arrondissement, acquistato circa quindici anni fa per ospitare — dopo un
investimento di quasi 100 milioni di euro — la più visibile delle sue “opere
buone”. In questo enorme edificio in pietra meulière,
180 studenti provenienti da buone famiglie cattoliche di provincia sono
ospitati a basso costo conducendo una vita di preghiera, tra 7.000 metri
quadrati di giardino, uno stagno e dei conigli.
La cappella,
con panche in velluto rosso, è accessibile in ogni momento — anche di notte.
Come in un monastero, don Grimaud regna sovrano,
impone il silenzio assoluto nei corridoi e la comunione in ginocchio. Qui,
Vincent Bolloré assiste più volte a settimana alla messa del mattino e a quella
della domenica sera. «Ha scelto il suo clero», commenta con disapprovazione un
membro del diocesi di Parigi, dove le manovre del
miliardario sono guardate con impotenza.
Il più delle
volte, Vincent Bolloré si reca da solo nella cappella, a pochi minuti in auto
da casa sua. Del resto, raramente lascia il suo quartiere, anche quando pranza
nella sua elegante brasserie con servizio parcheggio, dove ordina
invariabilmente una bistecca con uovo al tegamino e una Coca Light, quando non
decide di andare al ristorante cinese cinquanta metri più giù.
«È diventato
come Howard Hughes», commenta talvolta, nei salotti parigini, il consigliere
Alain Minc, che per anni lo ha accompagnato nei suoi affari finanziari prima di
allontanarsene, sconvolto dalla sua deriva identitaria. Un riferimento al
miliardario americano che finì la sua vita da recluso, interpretato da Leonardo
DiCaprio nel film The Aviator.
A sorpresa di
molti, l’uomo d’affari non ha né autista né guardia del corpo.
Bisogna
credere a chi ci vede l’indipendenza di un “pirata”? O piuttosto agli altri,
che sanno che “Vincent” non si fida che di sé stesso? Questo apostolo della
discrezione fissa da solo i suoi appuntamenti riservati, senza segretaria, e
nessuno svolge per lui il ruolo di capo di gabinetto. Il bretone non riceve più
giornalisti esterni al suo gruppo da quasi dieci anni — la lettera manoscritta
di tre pagine che Le Nouvel Obs gli ha indirizzato
per incontrarlo è rimasta senza risposta, così come i messaggi lasciati ai suoi
figli…
I suoi rari
visitatori tacciono per la maggior parte: «A Vincent non piacerebbe che si
parlasse di lui. Non ci vedremo, per non deluderlo», declina il pubblicitario
Jacques Séguéla, che dispone ancora di un ufficio
presso Havas, una delle filiali del gruppo.
La sua vita si
è come ristretta, ultimamente.
Bolloré non
organizza più anteprime per i suoi vecchi amici al Mac-Mahon, il suo cinema
sugli Champs-Élysées. Non partecipa più nemmeno alle
riunioni del club Entreprises et Cités, quel cenacolo
tanto segreto quanto influente che riunisce una manciata di grandi capitani
d’industria. Il 13 giugno non si è recato alla chiesa di Saint-Germain-des-Prés per i funerali del
giornalista Philippe Labro, quel vecchio amico che lo aveva aiutato a muovere i
primi passi nel mondo dei media. «Troppa gente, troppi giornalisti», ha fatto
sapere.
Gli unici riti
che ha conservato in questa nuova fase della sua vita sono i cesti regalo di
prodotti bretoni inviati durante le festività alle vecchie conoscenze. Le sue
uscite sono ormai riservate ai fedelissimi (decorazioni ai numeri uno e due di
Canal+, Maxime Saada e Gérald-Brice Viret, quella del patron di Dassault, Éric Trappier…) e a motivi imprescindibili.
Vedere Bernard
Arnault è uno di questi. Vincent Bolloré conosce e stima da sempre il
presidente di LVMH e prima fortuna di Francia. La vendita di Paris Match da
parte del bretone, finalizzata a ottobre, ha ancora avvicinato i due uomini, al
punto che si sono concessi una gita in comune al Puy du
Fou di Philippe de Villiers nell’agosto 2024. Arnault
ammira il lato «delinquente degli affari» di questo imprenditore interventista
che non si pone limiti.
Bolloré, dal
canto suo, conosce il peso dell’impero del lusso costruito dal patron di LVMH.
«Non ci si mette contro un uomo che vale 150 miliardi», ripete in privato. Nel
profondo, poi, ci sono sempre meno differenze tra i due, dato che Arnault è
rimasto deluso da Emmanuel Macron. All’inizio di maggio, la coppia si è
raccolta davanti alla tunica che Cristo avrebbe indossato prima della
crocifissione, la Santa Tunica di Cristo, durante un’ostensione ad Argenteuil,
dove era presente anche Nicolas Sarkozy.
Il sostegno di
LVMH è stato determinante nel lancio del JDNews, il
settimanale dalla linea violentemente reazionaria legato al JDD. Per garantirne
il funzionamento, il gruppo di Dior e Louis Vuitton si è impegnato ad
acquistare tutto l’anno diverse pagine pubblicitarie per ogni numero.
Nulla sembra
arrestare la love story del grande capitale: a fine giugno, i due grandi patron
si sono incontrati di nuovo, a tu per tu, per un appuntamento discreto in cui
si è parlato del destino de Le Parisien. Il bretone fa sapere da tempo in tutta
Parigi di voler acquistare il giornale da un Bernard Arnault stanco di
finanziare una nave che perde una trentina di milioni di euro all’anno. Un
quotidiano popolare, proprio il tassello mancante nell’impero del gigante dei
media...
Quale sarà la
prossima offensiva di Vincent Bolloré, che non ama nulla quanto essere là dove
nessuno lo aspetta? La sua promessa di ritirarsi nel 2022, anno del
bicentenario del gruppo, ha fatto ridere a lungo i suoi collaboratori: il
settantenne era arrivato al punto di installare un conto alla rovescia sul suo
telefono e lo mostrava a chiunque dubitasse. Se è vero che ha ufficialmente
posto i suoi figli, Yannick e Cyrille, a capo di
Vivendi e del gruppo che porta il loro nome, Bolloré non ha lasciato loro che
le insegne formali del potere.
Tutto ciò che
conta davvero passa ancora da lui: il controllo del gruppo Lagardère e dei suoi
gioielli; la frammentazione di Vivendi in più società per meglio valorizzarle
in Borsa; la vendita delle attività portuali e logistiche in Africa, tanto
redditizie quanto complesse.
Il patriarca,
che salvo sorprese dovrebbe essere presto processato per corruzione nella
concessione del porto di Lomé in Togo (l’ordinanza di rinvio a giudizio,
secondo fonti giudiziarie, è attesa entro la fine dell’anno voleva evitare ai
suoi figli gli stessi guai).
È stato infine
Vincent Bolloré a presiedere la trasformazione di un’azienda capitalista
classica in una macchina da guerra culturale, sugli schermi e sui social, nella
stampa, nella radio e nell’editoria. Tante piattaforme in cui le sue ossessioni
vengono ripetute ininterrottamente in un circuito chiuso, alimentandosi le une
con le altre.
Nel mondo
Bolloré, i fatti spesso svaniscono davanti all’ideologia.
A inizio
luglio, i giornalisti di Europe 1 hanno scoperto con sorpresa che perfino
l’ondata di caldo veniva trattata nei notiziari in chiave securitaria, con
servizi sulle effrazioni nelle piscine e altri sulle aggressioni nei parchi
aperti di sera. Nel bel mezzo dell’ondata di calore, Pascal Praud
è intervenuto in conferenza di redazione per affermare, con stupore generale:
«Il riscaldamento climatico non esiste»
«Vincent
Bolloré è disposto a perdere soldi per pura ideologia… è raro nel capitalismo»,
spiega l’animatore Thierry Ardisson, licenziato da Canal+ proprio da Bolloré.
Il metodo del falso pensionato si riassume in due parole: fedeltà e vicinanza.
Ogni ramo è guidato da uomini che gli devono tutto, spesso ex numeri due o tre
promossi a numeri uno.
Fedelissimi
tenuti al guinzaglio corto, contrariamente a quanto dichiarato da Bolloré nel
2024 all’Assemblea nazionale, durante una commissione parlamentare d’inchiesta,
quando giurò di «non intervenire in nulla» nelle scelte editoriali del suo
gruppo.
È un segreto,
e gli interessati lo negano, ma secondo fonti concordanti, Bolloré riunisce
ogni inizio settimana nei suoi uffici di boulevard de Montmorency i principali
dirigenti dei suoi media (Serge Nedjar per CNews, Gérald-Brice Viret e Maxime Saada per Canal+, Geoffroy Lejeune per Le
JDD, Louis de Raguenel per Europe 1 e le JDNews…), per discutere dei temi da affrontare. Il
miliardario fa anche parte di un gruppo WhatsApp dove «ci si scambia idee, ci
si sfida per trovare i titoli migliori», riconosce Geoffroy Lejeune. Il molto
cattolico direttore del JDD rivendica questi scambi con un azionista «super
disponibile, che ha idee e a volte informazioni che noi non abbiamo».
Il grande capo
non ha esitato nemmeno a imporre la presenza di Aymeric
Pourbaix, caporedattore del suo magazine ultra reazionario France Catholique, al JDNews
e su CNews. Bolloré comunica infine senza
intermediari le sue direttive alle sue star: Laurence Ferrari, Pascal Praud o Philippe de Villiers. E quando l’ex presidente del
MPF, cui ha affidato una rubrica fissa ogni venerdì su CNews,
moltiplica le dichiarazioni anti-aborto — «l’aborto di
massa fa il paio con l’immigrazione di massa» — il bretone lo rassicura:
«Finché ci sarò io, avrete la vostra libertà di parola».
In questo
sistema, la casa editrice Fayard svolge un ruolo centrale. Bolloré si affida lì
a Nicolas Diat, editore del cardinale Robert Sarah e
di Jordan Bardella, che è entrato nella sua cerchia ristretta e, più
recentemente, in quella del presidente del RN, a cui questo ottimo conoscitore
delle dinamiche vaticane, per esempio, ha organizzato il viaggio a Roma in
occasione dei funerali di papa Francesco.
Il miliardario
può contare anche su Lise Boëll, a capo della casa
editrice dal 2024. Sotto la sua direzione, la sede di rue du
Montparnasse è diventata il principale nastro di trasmissione di CNews, pubblicando i libri delle sue star: Philippe de
Villiers, l’avvocato Gilles-William Goldnadel, la
polemista di estrema destra Gabrielle Cluzel.
A volte,
Vincent Bolloré le indirizza personalmente le sue direttive, come quella di
offrire a Éric Ciotti un piano di comunicazione degno di un candidato
presidenziale, con serata di lancio davanti al Tout-Paris e affissioni negli
aeroporti (che gli appartengono anch’essi). Il miliardario le ha anche chiesto
in persona di pubblicare il libro di Xenia Fedorova, Bannie.
L’ex
direttrice del canale di propaganda russo RT France ora lavora sulla rete
reazionaria CNews (così come il reporter di guerra
filorusso Régis Le Sommier), dove utilizza
l’espressione del Cremlino «operazione speciale» per parlare dell’invasione
russa dell’Ucraina, quando non firma articoli sulle colonne del JDD. Una
“sinergia” perfetta: la penna scelta per scrivere il libro di Fedorova è Raphaël
Stainville, caporedattore del JDD.
Se finora
l’Eliseo si era adattato alla xenofobia del gruppo — fino al punto da portare a
Bruxelles, nel marzo 2024, un giornalista del JDD sull’aereo presidenziale — la
svolta filorussa di Bolloré ha segnato un punto di rottura con Emmanuel Macron.
A Rue du Faubourg-Saint-Honoré, i consiglieri hanno
visto, nella prima pagina del Journal du Dimanche che denunciava «l’attrazione malefica per la
guerra» del presidente, la mano personale di Bolloré, e cercano di comprenderne
le ragioni. Convergenza tra i difensori dei «valori tradizionali»? O influenza
di Nicolas Sarkozy?
Durante il
seminario annuale del gruppo Lagardère, il 16 giugno al Racing Club, l’ex capo di Stato (membro del consiglio di
amministrazione e amico sia di Vincent Bolloré che di Arnaud Lagardère)
ha tenuto una conferenza di due ore davanti a un pubblico sbalordito, durante
la quale ha sostenuto che il vero pericolo, sulla scena mondiale, fosse più il
riarmo della Germania che l’espansionismo di Vladimir Putin.
«I popoli non
cambiano mai», ha affermato a proposito dei tedeschi. È lontano il tempo in cui
Macron, sua moglie Brigitte e il “consigliere per la memoria” dell’Eliseo,
Bruno Roger-Petit, credevano ancora nell’ipotesi di una riconciliazione,
organizzando pranzi all’Eliseo sotto il patrocinio, ancora una volta, di
Sarkozy. «Per fortuna ci sono io a tenerli a bada», diceva all’epoca in
sostanza il bretone a proposito dei giornalisti del suo gruppo, di cui si
vantava di contenere gli eccessi più zelanti.
«Macron è un
cinico», continua oggi a ripetere. Non gli è piaciuto sentire, a marzo, il
presidente affermare che «la Francia laica è la figlia naturale della
Repubblica» davanti a una platea di massoni nella sede della Grande Loge de France.
Chi sosterrà
nel 2027? Sotto la sua spinta, Fayard sta incoraggiando Jordan Bardella a
pubblicare un secondo libro, previsto per l’autunno, offrendo nel contempo a Bruno Retailleau
una copertura mediatica da far invidia ai suoi concorrenti. «È una destra che
ci toglie il senso di colpa per esserlo», commenta soddisfatto Arnaud
Lagardère.
Ma come negli
affari, dove da quarant’anni Bolloré fa l’opposto di ciò che aveva promesso,
vendendo da un giorno all’altro ciò che diceva invendibile se ciò gli consente
di uscirne più ricco, l’uomo è imprevedibile. «L’unica cosa certa è che
sacrificherebbe Cristo pur di vincere la sua battaglia di civiltà», confida una
delle figure della destra. Parole che alimenteranno le sue prossime confessioni
***
(Clément
Lacombe e Camille Vigogne Le Coat - Le Nouvel Observateur)