Perché i paesi arabi che circondano
Israele non intervengono nella crisi in Medio Oriente
di
Pierre Haski - France Inter
PARIGI
- A quasi un anno dal 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco di Hamas contro Israele, c’è un’assenza di rilievo
nella crisi regionale che continua ad aggravarsi: quella dei paesi arabi, che
mantengono un comportamento cauto e sono poco attivi sul piano diplomatico,
mentre il mondo attorno a loro vive un’inesorabile escalation, con migliaia di
morti nella Striscia di Gaza, un Libano stravolto dal conflitto tra Hezbollah e
Tel Aviv, i bombardamenti in Siria e Yemen, e l’Iran in attesa di rappresaglie
da parte dello stato ebraico.
Ci
sarebbero tutti i motivi per mobilitarsi, tentare mediazioni e provare a
spegnere gli incendi che minacciano la regione. Eppure
non è così, i paesi arabi restano immobili. La spiegazione va ricercata nella trasformazione delle dinamiche regionali degli ultimi anni,
che ora sono minacciate dalle crisi in corso.
Primo
fatto significativo: nessuno dei paesi arabi che hanno stabilito relazioni
diplomatiche con Israele ha deciso di romperle, né quelli che si sono
avvicinati per primi allo stato ebraico, come l’Egitto e la Giordania, né i più
recenti, come gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein o il Marocco. L’opinione
pubblica di questi paesi, quando riesce a esprimersi, è chiaramente solidale
con gli abitanti di Gaza. Ma i governi in questione restano in modalità
d’attesa.
Questi
stati hanno fatto la scelta politica di affidarsi a Israele per la loro
sicurezza e il loro sviluppo economico, siglando i cosiddetti accordi di Abramo senza preoccuparsi dei
palestinesi, del tutto ignorati in questo processo di riavvicinamento. Oggi,
evidentemente, i paesi arabi non si trovano nella posizione di poter impartire
lezioni.
Questo
“oblio” permette all’Arabia Saudita, che alla vigilia del 7 ottobre scorso era
sul punto di firmare un accordo simile, di mostrarsi più audace. Il regno ha
aggiunto una condizione al raggiungimento di un’intesa con Israele: l’impegno a
creare uno stato palestinese. I leader sauditi non sono particolarmente
sensibili alla causa palestinese, ma hanno semplicemente colto l’occasione
politica.
In
settimana il capo della diplomazia saudita Faisal bin Farhan al Saud ha firmato
un articolo pubblicato dalla stampa britannica in cui dichiara che la soluzione
dei due stati è “più urgente che mai”. Dirlo non costa niente, se poi non si
agisce di conseguenza.
Cosa
possono fare gli stati arabi? In passato sono stati spesso più attivi, non
sempre in modo intelligente. L’aspetto taciuto ma decisivo in questa vicenda è
che alla maggior parte di questi paesi fa comodo che Hezbollah sia indebolito,
così come gli altri protagonisti del cosiddetto asse della resistenza
filoiraniano, a cominciare dagli huthi dello Yemen, che i sauditi e gli emirati
hanno tentato di sconfiggere senza risultati.
Tuttavia,
i rapporti tra le monarchie conservatrici del Golfo e Israele non sono
indistruttibili, e sarebbero sicuramente messi a dura prova in caso di una
guerra totale nella regione o semplicemente di una distruzione definitiva di
ciò che resta dei territori palestinesi.
La
settimana scorsa il ministro degli esteri giordano Ayman Safadi
ha denunciato l’assenza di lungimiranza dei leader israeliani. “Non abbiamo
un partner per la pace”, ha dichiarato, parafrasando la famosa frase
israeliana a proposito dei palestinesi. Questo raro attacco diretto mostra
l’imbarazzo di chi ha scelto di legarsi a Israele ma rischia di perdere
credibilità nel cumulo di macerie del Medio Oriente.
***
(Pierre
Haski è un giornalista francese, tra i fondatori del sito d’informazione
Rue89. Ha una rubrica quotidiana di politica internazionale su radio
France Inter, pubblicata ogni mattina sul sito di "Internazionale" -
Traduzione di Andrea Sparacino - Sostenete la buona stampa con un abbonamento a
"Internazionale")