Trump contro
Harvard, il populismo Maga e la guerra al sapere. Una strategia per silenziare
il dissenso
di
Stefano Vaccara - La Voce di New York
NEW YORK -
L’attacco dell’Amministrazione Trump contro Harvard – con il blocco dei visti
per studenti stranieri e i tagli ai fondi – è diventato un simbolo della nuova
crociata anti-intellettuale dell’establishment trumpiano. La guerra culturale
ha preso di mira l’università americana più celebre, trasformandola nel capro
espiatorio di tutte le frustrazioni del populismo MAGA. L’operazione è tanto
semplice quanto pericolosa: costruire una narrazione in cui il “popolo” –
inteso come la parte bianca, rurale e non laureata della società americana – si
sente opposto a un’élite corrotta, potente, ipocrita, che trova in Harvard il
suo emblema perfetto.
In una recente column sul Corriere della Sera, Federico Rampini analizza
questo scontro tra Donald Trump e l’università simbolo dell’establishment,
rilevando come “la chiusura agli studenti stranieri suscita allarme e condanna
nel mondo intero. Ma si può dire altrettanto del popolo americano? Quasi
certamente la risposta è no”. Ed è qui che Rampini, a mio parere, sfiora – senza però caderci del tutto –
il rischio di un’eccessiva comprensione per la propaganda trumpiana.
Certo, è vero
che Harvard rappresenta per molti americani un’istituzione distante, elitaria,
persino arrogante. Rampini lo sottolinea: con un patrimonio di 53 miliardi di
dollari, rette annuali da 100mila dollari, edifici intitolati ai miliardari e
una composizione studentesca dominata dai figli del ceto medio-alto, è
difficile difendere Harvard senza cadere nel cliché dell’intellettuale snob. Ma
è proprio questa retorica – l’università come torre d’avorio scollegata dalla
realtà – che l’anti-intellettualismo di Trump vuole
sfruttare fino in fondo.
Il rischio
maggiore è proprio quello identificato già nel 1963 da Richard Hofstadter nel suo classico Anti-intellectualism in American
Life. In quel libro, Hofstadter analizzava le
radici profonde del sospetto verso l’intellettuale nella cultura americana: un
misto di religiosità evangelica, pragmatismo commerciale e individualismo
radicale. L’intellettuale veniva percepito come colui che dubita, che
problematizza, che mette in discussione le certezze – e per questo come una
figura “antipopolare”.
Thomas Nichols,
autore di The Death of Expertise (2017), ha aggiornato l’analisi di Hofstadter ai nostri tempi: viviamo in una cultura dove
ogni opinione viene equiparata a un fatto, dove l’esperienza e la conoscenza
vengono svalutate, e dove il sospetto verso l’élite intellettuale diventa una
bandiera ideologica. La campagna contro Harvard è solo l’ultimo capitolo di
questo processo.
Come nota
Rampini, Trump riesce ancora a toccare corde profonde dell’elettorato,
riposizionandosi come “outsider” in lotta contro le istituzioni tradizionali.
Ma è proprio questa mistificazione che va smascherata. Perché l’obiettivo del
presidente non è una maggiore equità nel sistema universitario, bensì la
demolizione di ogni spazio critico e indipendente dal potere politico. E
l’università – con tutti i suoi difetti – resta uno degli ultimi bastioni della
riflessione libera.
Come fa anche
Rampini, è importante ricordare la voce di Steven Pinker, docente di Harvard,
ma che pur avendo criticato spesso la deriva
ideologica e dogmatica dell’ateneo, ha condannato con fermezza gli attacchi di
Trump. La sua posizione è chiara: “il fatto che queste critiche siano possibili dimostra che Harvard non è un gulag
ideologico. Ma il fatto stesso che servano battaglie per difendere la libertà
di espressione al suo interno mostra che quella libertà è minacciata”.
Questa doppia
verità va ribadita: Harvard è criticabile, ma difendere la sua autonomia è
essenziale per la democrazia. Scrivere certe definizioni può sembrare una
ovvietà, ma nell’era Trump nulla è scontato. Come avrebbe ricordato Umberto
Eco, una democrazia si regge su un sapere critico, capace di esercitarsi
liberamente contro i poteri. Senza università libere, senza stampa
indipendente, senza luoghi dove coltivare idee che non servano al potere del
momento, una democrazia non è più tale.
Trump non è
l’unico a portare avanti questo tipo di attacco. Jason Stanley, nel suo libro How
Fascism Works (2018), spiega come una delle
caratteristiche fondamentali dell’autoritarismo sia la delegittimazione del
sapere: “Distruggere la fiducia nel mondo accademico è una delle strategie
centrali dei regimi autoritari”.
Nel momento in
cui si criminalizzano gli studenti stranieri, si tagliano fondi a università
“colpevoli” di dissenso, si delegittimano gli esperti in quanto tali, ci si
avvicina pericolosamente a una deriva autoritaria mascherata da populismo. E
non basta dire che Harvard è imperfetta: è proprio nelle sue imperfezioni che
risiede la sua utilità democratica, perché continua – nonostante tutto – a
essere uno spazio dove si pensa, si discute, si critica.
Rampini ha il
merito di mostrare le contraddizioni di Harvard. Ma non può bastare a
giustificare, neppure indirettamente, la campagna di demolizione culturale
portata avanti da Trump. Non è una semplice “battaglia tra fazioni”, come
conclude Rampini, ma uno scontro tra chi vuole salvare lo spazio del pensiero
critico e chi vuole cancellarlo.
Madeleine
Albright nel suo ultimo libro Fascism: A
Warning 2018, pubblicato proprio dopo la prima elezione di Trump, ci ha
avvertito che “the temptation to dismiss
demagogues as buffoons is strong. We do so at our
peril”.
Nello scontro
tra Trump e mondo accademico, scegliere da che parte stare ormai appare sempre
più chiaro: tra la libertà e chi intende sopprimerla.
***
(Stefano
Vaccara www.lavocedinewyork.com
Giornalista e scrittore. Nato e cresciuto in Sicilia, laurea a Siena, master a
Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America con Il Giornale di
Montanelli, America Oggi e USItalia Weekly. Dal
Palazzo di Vetro oggi racconta l’ONU dopo aver fondato e diretto La Voce di New
York dal 2013 a gennaio 2023)