La fine di
un'epoca. Con la condanna di Bolsonaro, il Brasile ha
voltato pagina
di
Daniele Mastrogiacomo - L'Espresso
Dalla gloria
alla polvere.
Dal successo stellare alla detenzione in carcere. Jair Messia Bolsonaro, ex presidente del Brasile, leader osannato
della destra estrema, celebra l’apice della sua vita umana e politica nel
peggiore dei modi. Subisce una condanna a 27 anni e tre mesi per cinque
gravi reati: tentata abolizione violenta dello Stato, colpo di Stato,
appartenenza a un’organizzazione criminale, danneggiamento di proprietà
pubblica e danneggiamento di beni protetti. Dovrà scontare la pena dietro le
sbarre. Non si sa ancora quando e in quale penitenziario. È probabile prima
della fine di questo 2025. Ci dovrà rimanere almeno sei anni.
Sperava in
un’assoluzione, in un verdetto che annullasse la lunga istruttoria sul
tentato golpe culminato l’8 gennaio del 2023 con l’assalto di 50 mila militanti
di destra alla spianata dei Tre Poteri a Brasilia. Confidava sulla
sospensione del processo, con il caso trasmesso alla magistratura ordinaria.
Più malleabile, meno indipendente. Era un’ipotesi. Ma possibile. Luiz Fux, uno
dei cinque giudici che componevano la prima commissione del Tribunale superiore
federale, il massimo organo giuridico brasiliano a cui era stato affidato lo
scottante caso, si era detto favorevole. Era stato l’unico consigliere che, in
un discorso durato 22 ore, aveva smantellato punto per punto l’intero impianto
accusatorio. Ma l’illusione, durata lo spazio di un mattino, si è presto
trasformata in un incubo.
Una doccia
gelata per i familiari dell’ex presidente radunati in attesa del verdetto nella
casa di Brasilia dove Jair era agli arresti domiciliari dal 4 agosto
scorso. Per i dirigenti politici della destra estrema che lo avevano sostenuto
con minacce e pressioni e che adesso sono pronti a sostituirlo con un nuovo
leader. Per i milioni di fan che si erano spesi tra iniziative, manifestazioni,
persino preghiere e raduni evangelici invocando l’aiuto di Dio, l’unico in
grado di salvare il loro idolo. Anche il figlio Eduardo si è dovuto rassegnare.
Da sette mesi vive a Washington per perorare la causa del padre. Ha convinto
Trump che in Brasile c’è «una dittatura giudiziaria»; lo ha spinto a
dichiarazioni infuocate, di pieno sostegno al suo “amico” Bolsonaro.
Ha chiesto e ottenuto l’applicazione della legge Magnitsky,
quella che perseguita gli autori delle violazioni dei diritti umani e i
corrotti. L’ha fatta estendere all’estero per colpire chi stava giudicando l’ex
presidente. Ha fatto revocare loro il visto d’ingresso negli Usa. Ha punito il
Brasile con dazi del 50 per cento, i più alti al mondo.
Un record di
ritorsioni. Non sono servite a niente. Il governo e il presidente Lula
hanno respinto «le gravi ingerenze negli affari interni di un Paese sovrano»,
la magistratura ha riaffermato la sua indipendenza dal potere politico. Così è
stato. Un esempio virtuoso. Il Brasile ha tenuto la testa alta, non si è fatto
intimorire e soggiogare. Altri quattro magistrati del Supremo, Alexandre de
Moraes, Carmen Lucía Rocha, Flávio
Dino e Cristiano Zanin, non hanno avuto dubbi: hanno votato per la
condanna. Quattro voti a favore, uno contrario.
L’ex capitano
ribelle cacciato dell’esercito, l’ex presidente che per quattro anni, dal 2019
al 2022, ha governato un Brasile devastato dagli incendi sottovalutati e
negati, flagellato dal Covid con 700 mila morti che si potevano evitare, ha
trascinato nel suo piano golpista altri sette fedelissimi. Quattro sono
militari, figure di primo piano, con incarichi da ministri. Due sono civili, il
settimo guidava i Servizi segreti. Nomi noti in Brasile. Per il loro passato,
per il sostegno alla dittatura che governò il Paese, per l’insofferenza alle
regole istituzionali. Walter Braga Netto, generale dell’esercito, ha avuto
una condanna a 26 anni. Era ministro della Camera Civile, che corrisponde al
nostro primo ministro, e candidato alla vicepresidenza alle ultime elezioni,
perse per un soffio nella sfida con Lula. C’è Gustavo Heleno,
anche lui generale dell’esercito che ricopriva la carica di ministro della
Sicurezza Nazionale. Gli hanno inflitto 26 anni. Quindi l’ammiraglio Almir
Garnier, comandante della Marina. Una pena a 24 anni. È stato l’unico dei
tre responsabili delle Forze Armate ad appoggiare il progetto di golpe.
Quando il
presidente li convocò nel suo ufficio, i capi dell’Esercito e dell’Aeronautica
ebbero un sussulto di orgoglio costituzionale e negarono il loro consenso.
Garnier restò isolato. Questo, forse, ha convinto l’ex presidente a riparare in
Florida dal suo amico Donald Trump. Ma ha solo sospeso, non cancellato
il piano. Dagli Usa ha atteso che il resto dei suoi sostenitori facessero il
lavoro sporco, con l’irruzione e la devastazione dei palazzi della Presidenza,
del Congresso, della Corte Suprema. La miccia che avrebbe acceso la rivolta e
il golpe, con l’intervento dei militari a rimettere ordine. Lo avevano fatto a
Washington, l’anno prima, il 7 gennaio 2022, assaltando Capitol Hill. Potevano
farlo anche in Brasile. È andata in maniera diversa. I magistrati hanno insistito.
Uno, in particolare, Alexandre de Moraes, 56 anni, l’unico ad essersi
opposto al tentativo di golpe la sera dell’8 gennaio.
Mentre i 50 mila
sostenitori di Bolsonaro lasciavano tra le rovine lo
slargo dei Tre Poteri e si rifugiavano nella tendopoli allestita a poche
centinaia di metri, protetti dal Comando militare territoriale, il giudice
aveva fatto schierare la polizia militare e chiesto ai rivoltosi di arrendersi.
I soldati di guardia avevano tirato fuori due blindati, i cannoni puntati sugli
agenti. La mediazione del vescovo di Brasilia ha evitato il peggio. È
stato sempre questo magistrato controverso, di idee conservatrici ma paladino
della legalità, considerato una bestia nera dalla famiglia Bolsonaro
e dall’ambiente dell’estrema destra, ad avviare l’inchiesta che 18 mesi dopo ha
portato al processo.
È stato ancora
lui a disporre l’arresto di Anderson Torres, ministro della Giustizia
dimissionario, perché trovato in possesso della copia di un decreto legislativo
che avrebbe dato copertura giuridica allo stato di emergenza da proclamare
secondo il piano del golpe. Anderson si è visto infliggere 24 anni di carcere
per la sua partecipazione attiva al progetto. Così Paulo Sérgio Nogueira,
ministro della Difesa, che ha avuto 19 anni e Alexandre Ramagen
a cui è stata inflitta una pena di 16 anni come direttore dell’Abin, l’agenzia di spionaggio interno. Ottavo imputato era
Mauro Cid, tenente colonnello dell’esercito, segretario particolare di Bolsonaro. I giudici gli hanno riconosciuto la fondamentale
collaborazione, premiata con una cospicua riduzione della pena: 2 anni.
Arrestato nei
primi giorni ha accettato di partecipare alle indagini. La sua confessione ha
consentito agli investigatori di recuperare le prove cartacee e audio che hanno
confermato l’esistenza del progetto di golpe e il ruolo da protagonista di Jair
Bolsonaro.
Dalla cella in
cui sarà rinchiuso, il capitano diventato presidente ricorderà le passeggiate
provocatorie assieme ai militari il sabato mattina a Copacabana; le adunate
oceaniche che lo hanno portato verso la vittoria. I quattro anni alla guida del
Brasile. La negazione dei Covid, il falso certificato antivirus per
entrare negli Usa ai tempi della pandemia, l’isolamento internazionale per le
sue uscite a favore della passata dittatura militare, la delegittimazione del
sistema elettorale, la campagna contro l’allarme mondiale dei roghi che stavano
distruggendo l’Amazzonia. Jair Bolsonaro è stato il
pioniere di quell’ondata di populismo e autoritarismo che ha prodotto i Milei, i Bukele e il secondo Trump. Ha emulato il suo
mentore oggi alla Casa Bianca. Aveva l’appoggio di oltre la metà dei
brasiliani. Gli stessi che oggi negano la possibilità di un’amnistia. Ha
varcato la linea rossa tracciata dalla democrazia. Una sfida che nessuno gli ha
perdonato
***
(Daniele
Mastrogiacomo www.lespresso.it-
Per anni firma di punta del quotidiano La Repubblica, ha seguito grandi vicende
internazionali rischiando anche la fucilazione in Afghanistan e liberato dopo
una vasta campagna giornalistica mondiale. Ora scrive per il settimanale
L'Espresso)