Reportage
dalla Columbia University, tra studenti “muti” e lo Speaker del Congresso
venuto per “proteggerli”
di Stefano Vaccara - La Voce di New York
NEW
YORK - Il Campus della Columbia University mercoledì appare blindato dai
poliziotti della NYPD che lo circondano per tutto il perimetro, con i cancelli
chiusi tranne quei pochi dove hanno posizionato anche metal detector. La più
prestigiosa università di New York, ci appare ormai chiusa anche nel suo
spirito. Quel suo bellissimo campus è avvolto da una tensione mai vista qui. Lo
avremmo visitato in trent’anni almeno trenta volte, mai ci era apparso così
cupo. Dove sono finiti gli studenti disponibili a rilasciare le loro opinioni
sui fatti del mondo? Oggi il 90% di quelli che cerchiamo di fermare per porgli
delle domande, ti sbarrano una mano avanti, non sorridono, balbettano “I’m sorry” e scappano via.
Quando
ci avviciniamo agli studenti più “militanti” che si sono accampati da giorni
per protestare contro “il genocidio” di palestinesi a Gaza e per spingere la
Casa Bianca di Biden a imporre il cessate il fuoco a Israele, ti rispondono che
loro non sono autorizzati a parlare, spetta ai loro “delegati”. Delegati?
Indicano tre studenti, due hanno la keffiyeh a
scacchi palestinese in testa, sono attorniati da decine di giornalisti, appena
fuori dall’accampamento e rispondono alle domande, una per una. Quando cerchi
di farne agli altri studenti, ti rimproverano, bisogna rivolgere agli altri
tre. Ma visitarel’accampamento? Non si può, ti
fermano e ti dicono con modi decisi: i giornalisti devono andare dai nostri
delegati, e ti indicano quei tre attorniati dalle telecamere. Non capiamo se è
una regola provvisoria, soltanto oggi per la confusione che c’è, ma
l’accampamento della protesta mercoledì pomeriggio è proprio “off limits” ai giornalisti.
Allora
facciamole le domande ai “delegati”. Chiediamo se l’arrivo dello speaker
Johnson li intimidisce: “No, semmai ci ha intimidito quando la polizia ha
arrestato gli studenti o qualcuno ha minacciato di chiamare la Guardia
Nazionale”. Gli chiediamo cosa pensano del consiglio che ha inviato loro
dal Palazzo di Vetro Philippe Lazzarini, il capo dell’UNRWA (agenzia per i
rifugiati palestinesi dell’ONU): cioè bisognerebbe non
mostrare solo “empatia unilaterale”, solo per i palestinesi, ma anche per gli
israeliani rapiti… Sentiamo qualcuno che da lontano urla “34 mila morti
palestinesi rispetto a 140!”. Questa nostra domanda agli studenti “delegati”
finisce ignorata.
Ci
spostiamo e dopo vari tentativi andati a vuoto con studenti in fuga davanti al
tesserino “press”, ecco che una studentessa si ferma e accetta di rispondere.
Ci dice il suo nome, Beata, è australiana: “Non partecipo attivamente alla
protesta, non resto a dormire nell’accampamento, ma appoggio quello che stanno
facendo, ne sono orgogliosa”. Cosa pensa Beata dello Speaker del Congresso Mike
Johnson che arriva tra mezz’ora e ha detto che è qui per mostrare la sua
solidarietà agli studenti ebrei che si sentono in pericolo? “Non capisco il
perché, qui dentro al campus non è mai successo nulla. Nessuno ha aggredito
nessuno. Forse fuori? Ma non qui”.
Davanti
alla scalinata della vecchia biblioteca centrale ci sono già posizionati i
microfoni per quella che dovrebbe essere una conferenza stampa dello speaker
del Congresso, Michael Johnson, e le telecamere e un fiume di giornalisti che
si allunga ha preso posizione già da due ore. Quando ci avviciniamo, abbiamo
accanto degli studenti che accettano di rispondere: che ne pensate della
protesta? “Protestare va bene, ma non quando si sconvolge l’attività del campus
e il lavoro degli altri studenti che sono impegnati con esami. Questo non ci
sta bene” rispondono due studenti giovanissimi, sono al loro primo anno.
Cosa
sapete degli studenti ebrei che si sentirebbero minacciati? E’
proprio così? “Certo, io posso testimoniarlo, sono ebrea” ci dice Noa. Come ti sei sentita a disagio? “Sono stata intimidita,
dai messaggi on line nelle chat ma anche in giro”. Quindi cosa pensi della
venuta dello speaker del Congresso? “Non sapevo che sarebbe venuto oggi, ma
eccomi qui, voglio ascoltarlo e il mio giudizio dipende da quello che dirà”. Il
suo compagno aggiunge: “Sicuramente fa bene sapere che qualcuno vuol dare
solidarietà anche agli studenti che stanno subendo la protesta”. Ma gli
studenti che protestano non stanno esercitando il loro diritto di libera
espressione protetto dal Primo Emendamento? “Va bene la libertà d’espressione,
ma non se minaccia la libertà degli altri” ci dicono i due studenti parlando
insieme.
Ecco
che arriva lo speaker Johnson con altri congressmen e
congresswomen. Viene accolto dai “booh”
degli studenti mischiati ai giornalisti. Parla pianissimo, la folla si lamenta:
“Non ti sentiamo!”.
Nel
suo discorso dirà che la libertà d’espressione non autorizza a intimidire gli
altri, che alla Columbia come in altre università la protesta ha oltrepassato i
limiti del dibattito tra posizioni diverse. Alcuni studenti continuano con i
“buu”, lui replica: “Ecco, proprio come sta accadendo qui”. Poi dice che la
presidente della Columbia Nemat Minouche
Shafik ha perso il controllo dell’università, che non riesce a proteggere gli
studenti ebrei che hanno pagato per studiare alla Columbia e deve dimettersi.
“Non
possiamo proprio permettere che questo tipo di odio e antisemitismo cresca nei
nostri campus e dobbiamo fermarlo sul nascere. Sono qui oggi, unendomi ai miei
colleghi e chiedendo alla rettrice Shafik di dimettersi se non riesce a mettere
immediatamente ordine in questo caos”, ha detto Johnson.
Passa
la parola agli altri suoi colleghi venuti con lui da Washington e che
rappresentano vari distretti a New York che a raffica ripetono le loro
invettive contro gli studenti che “appoggiano Hamas” e che sono una “vergogna”.
Alcuni studenti gli rispondono urlando “Palestina libera” e “fermate il
genocidio”.
Poi
Johnson risponde a delle domande che però nel pandemonio nessuno riesce a
sentire, la situazione potrebbe anche degenerare, Johnson forse capisce che è
arrivato il momento di andarsene e sparisce con i suoi colleghi.
All’uscita
proviamo ad avvicinare altri studenti, ma nessuno vuol parlare. Uno studente
con i capelli rossi cammina abbracciato ad una collega di origini asiatiche,
non ci respinge e anzi ci sorride, però ci avverte subito che non può parlare.
Gli chiediamo perché sono tutti così titubanti ed evitano i giornalisti come la
peste. Si accerta che non registro e poi dice: “Temiamo di essere fraintesi,
qualunque cosa diciamo potrebbe essere interpretata male e far male”. Gli
chiedo di fare un esempio, mi guarda con sospetto, si accerta che non prendo
appunti, e poi dice: “Se diciamo che siamo a favore della protesta per i
diritti umani dei palestinesi di Gaza, ci prendono per antisemiti. Se diciamo
che siamo a favore della liberazione degli ostaggi e dell’esistenza dello stato
d’ Israele in sicurezza, ci accusano di essere a favore del genocidio. Per
questo preferiamo evitarvi”.
Usciamo
dal campus con almeno questo lume di saggezza, alla fine di un pomeriggio
oscurantista trascorso nel campus di una irriconoscibile Columbia University.
***
(Stefano
Vaccara www.lavocedinewyork.com
- Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico
tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo,
laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America,
per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York
con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per
Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx,
al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto
Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e
diretto (2013-gennaio 2023) La VOCE di New York, convinto che la chiave di
tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il
Premio Amerigo 2018)