Perché gli
italiani non spendono, anche se i redditi sono relativamente saliti. Ultima
analisi congiunturale
di
Stefano Carli - Linkiesta
ROMA -
All’elenco mancava anche questa: gli italiani, popolo di economisti. Così,
mentre ci si aspettava una ripresa dei consumi — complice il calo
dell’inflazione (almeno fino all’annunciata guerra dei dazi di Donald Trump, ma
qui siamo già nel 2025) — e con un’economia che nel 2024 ha mostrato segnali di
tenuta, l’occupazione in crescita, i bilanci familiari in lieve miglioramento e
i salari in timida ripresa, il risultato è stato sorprendente: per il secondo
anno consecutivo, le famiglie italiane hanno scelto di non spendere, tenendo
ben chiuso il portafogli. E hanno dimostrato di saper leggere, di pancia, la
situazione economica in modo egregio. Le famiglie italiane hanno insomma
ripreso a fare le formiche e a mettere da parte scorte, in attesa di tempi
migliori, i quali non sono evidentemente ritenuti quelli attuali.
I dati sono
quelli dell’ultima analisi congiunturale di Ref, uscita nei giorni scorsi, che
spiega dettagliatamente che cosa è accaduto. E i due dati più eclatanti sono,
appunto, i bassi consumi, rimasti, l’anno scorso, allo stesso livello del 2023
(+0,3 per cento), a fronte di un reddito disponibile reale che è invece
aumentato dell’un per cento. La differenza, in positivo, è finita in
patrimonio: ossia risparmio. Osserva Ref che «il tasso di risparmio delle
famiglie, nel 2024, ha raggiunto il nove per cento, a fronte dell’8,2 per cento
del 2023».
Per migliorare
la comprensione di questa tendenza, bisogna considerare che non venivamo certo
da un periodo di spese pazze. Anzi, durante la pandemia, nel biennio 2020/21,
le famiglie italiane avevano accumulato un ingente flusso di extra-risparmio,
che, all’inizio, e per meno di un anno, ha in effetti alimentato «un ampio
rimbalzo nel 2021 e nel 2022 rispetto ai minimi del periodo della pandemia. Ma
poi la spesa si è di fatto fermata, registrando incrementi marginali negli
ultimi due anni».
Comunque, il
2024 è stato un anno di ripresa per il potere d’acquisto delle famiglie. Scrive
Ref: «Il reddito disponibile, in termini reali, è aumentato dell’1,3 per cento,
dopo due anni di lievi contrazioni. Il recupero del reddito disponibile reale
ha rispecchiato soprattutto la caduta dell’inflazione, dopo un biennio segnato
da forti aumenti dei prezzi. Anche i redditi delle famiglie, in termini
nominali, hanno registrato un rallentamento, ma meno pronunciato di quello dei
prezzi».
Notare che
l’anno spartiacque è il 2022, e ciò significa che quel clima positivo, dovuto
alla fine della pandemia, termina con lo scoppio della guerra in Ucraina. Ma
non sono solo considerazioni di tipo geopolitico, o meglio
il senso di insicurezza che ne deriva, ad aver spinto le famiglie a un tenore
finanziario rigoroso. C’è stato, infatti, un secondo, e parimenti importante,
motivo di accumulo di munizioni finanziarie familiari, ed è stato il complesso
e complicato percorso di uscita dagli effetti perversi
del Superbonus edilizio.
Il Superbonus
al 110 per cento ha infatti creato una doppia spirale. Da una parte, un boom di
domanda che l’offerta effettiva non era in grado di soddisfare nei tempi
dovuti. Dall’altra, un rinvio di molti di questi lavori, nell’attesa di un calo
dei prezzi, finita l’età dell’oro, recuperando così, almeno in parte, il taglio
delle detrazioni riconosciute.
Le famiglie
hanno così continuato a risparmiare, come mostrano i dati di Ref, che indicano
come gli investimenti delle famiglie siano rimasti su livelli molto elevati
anche quando è venuta meno la componente del trasferimento di fondi pubblici in
conto capitale, ossia quando è venuto diminuendo l’apporto dei soldi del
Superbonus. Gli analisti lo chiamano «extra-investimento» per indicare che si
tratta del calcolo di quanto la spesa in investimenti delle famiglie si sia
tenuta sopra la media del periodo pre Covid e, quindi, anche pre Bonus.
Certo, ci sono
da fare diverse considerazioni anche rispetto agli scollamenti tra periodi di
fatturazione e periodi di riconoscimento dei bonus pubblici, e infatti Ref
scrive che «parte degli investimenti immobiliari realizzati recentemente
possono riferirsi a lavori precedentemente rimandati, proprio perché spiazzati
dal Superbonus.
Una
conseguenza di tale interpretazione sarebbe, quindi, che, se fino al 2023 gran
parte degli investimenti residenziali era stato finanziato mediante le risorse
derivanti da trasferimenti pubblici, il venir meno della possibilità di
accedere ai meccanismi di sconto in fattura e cessione del credito, nel 2024,
ha comportato che le famiglie abbiano sostenuto, nel corso dell’anno, parte
degli investimenti mediante un aumento del tasso di risparmio – a scapito della
spesa per consumi – oppure attingendo ai risparmi accumulati durante gli anni
precedenti. Ciò spiegherebbe la tenuta degli investimenti in abitazioni e il
tasso di risparmio elevato delle famiglie».
In parole
povere, l’uscita dal regime del Superbonus, con il progressivo taglio delle
detrazioni e il restringimento degli accessi, ha lasciato una parte di lavori
non conclusi, e le famiglie italiane se ne sono fatte carico. Hanno, di
conseguenza, tagliato le spese, aumentato i risparmi.
Certo, le cose
sarebbero andate forse diversamente se l’aumento dell’occupazione e gli aumenti
salariali avessero prodotto un aumento più consistente dei redditi familiari
netti, ma questo non è accaduto. L’occupazione, come confermano anche i più
recenti dati Istat, ha visto crescere soprattutto i posti nelle mansioni a
minor valore aggiunto, dal commercio ai servizi alla persona, e questo non dà,
certamente, una spinta alla crescita complessiva della ricchezza creata dal
Paese.
A ciò vanno
aggiunti altri fattori negativi. Per esempio, il taglio del cuneo fiscale ha
avuto, nel 2024, un effetto perverso – perché la riduzione dei contributi ha
comportato un incremento della base imponibile Irpef. «Va detto – spiega Ref –
che questo meccanismo è stato modificato con la Legge di bilancio per il 2025,
che ha reso permanente il taglio del cuneo – migliorando però le modalità con
cui questo è attuato, ovvero trasformandolo in un taglio dell’Irpef pagata dai
lavoratori». Ma, intanto, l’anno scorso, a rimetterci è stato il lavoro
dipendente.
Le famiglie
hanno dunque fatto la loro parte nell’uscita ordinata dal caos del Superbonus e
hanno anche compensato gli errori nella gestione del taglio del cuneo fiscale.
Ma è stato solo fare di necessità virtù, o c’è anche una parte di calcolo
economico? Si può dire che, in parte, è stato anche questo, in particolare nel
caso del Superbonus e degli investimenti nel patrimonio immobiliare. Perché, in
effetti, le famiglie, in questo caso, avrebbero anche potuto semplicemente
rinunciare ai lavori, tanto nessun Comune in Italia andrà mai a imporre multe
per facciate di immobili poco consone al decoro urbano.
Qui si
affaccia l’ipotesi che le famiglie abbiano deciso di investire sulle loro case
per provare a rimettere in moto un mercato immobiliare che è fermo al 2010
(fatti salvi pochi casi, come il centro di Milano). Ovviamente, l’andamento del
prezzo delle case influenza la ricchezza immobiliare – e, di conseguenza,
quella complessiva – delle famiglie. Ref dà conto del fenomeno grazie alla
banca dati Distributional Wealth
Account diffusa dalla Bce, che presenta dati aggiornati al terzo trimestre del
2024: «Emerge come lo scarso dinamismo del mercato immobiliare italiano abbia
determinato una crescita molto contenuta della ricchezza immobiliare delle
famiglie italiane nel corso degli ultimi anni, che si è tradotta in una
contrazione in termini reali, a fronte di andamenti invece più positivi per le
altre economie dell’area dell’euro».
Il risultato
di tutto questo è che il livello di ricchezza netta complessiva – espressa in
termini reali – è rimasto praticamente sullo stesso livello del 2019, in
Italia, a fronte invece di un andamento in crescita per il complesso dell’area
euro. Il Superbonus è stato, dunque, una via per ripatrimonializzare la
ricchezza immobiliare delle famiglie. E le famiglie ci hanno creduto fino al
punto di metterci anche soldi loro. Ma, alla fine, a rimettere in moto
l’economia potrà essere solo un aumento dei redditi da lavoro. Senza quelli,
non solo non ripartono i consumi, ma non ripartirà nemmeno la domanda di case.
Essere solo formiche non è più sufficiente. Anche se, intanto, meno male che ci
sono
***
(Stefano
Carli www.linkiestra.it
è stato per anni autorevole redattore di "Affari e Finanza"
settimanale economico di "Repubblica")