Come
risvegliare i piccoli comuni dal loro coma istituzionale. L'esempio di Francia
e Germania
di
Stefano Carli - Linkiesta
ROMA - I
piccoli comuni italiani sono a un bivio, serve una riforma per ridare loro la
forza di guardare al futuro: possono diventare un fattore di progresso, di
tutela del territorio, anche un laboratorio di un nuovo sviluppo green. Ma, per
farlo, devono uscire dallo stato di coma istituzionale in cui sono stati
lasciati da anni. L’allarme è il cuore dell’ultima edizione del Rapporto
Montagne Italia 2025, realizzato da Uncem e Fondazione Montagne Italia.
L’Uncem è
l’Unione nazionale comuni, comunità ed enti montani e raccoglie le esigenze e
rappresenta oltre tremilaquattrocento comuni montani
– quasi la metà del totale italiano – che occupano il quarantotto virgola otto
per cento del territorio nazionale e ospitano circa nove milioni di abitanti,
ossia il quindici virgola tre per cento della popolazione italiana.
Ma il problema
dei piccoli comuni non riguarda solo la montagna. Se sono loro a parlarne, è
solo perché rappresentano la parte più organizzata di questa platea
istituzionale. Sono anni che i comuni montani combattono con i problemi di
spopolamento e di marginalità economica, e per questo sono stati i primi a
iniziare a ragionare sul problema. Che è però un problema che è da un bel po’
sceso dai monti ed è arrivato anche in pianura.
In Italia, il
sedici per cento della popolazione vive in comuni sotto i cinquemila abitanti.
Il trentacinque per cento vive in centri tra i cinquemila e i ventimila.
Assieme fanno il cinquantuno per cento degli italiani. In città sopra il
milione di abitanti vive meno del dieci per cento; se abbassiamo l’asticella a
duecentocinquantamila abitanti, troviamo appena un ulteriore cinque per cento.
Siamo il Paese dei campanili, è vero, ma il problema non sono i numeri, ma la
governance.
Spiega Marco
Bussone, presidente di Uncem, che ha presentato il rapporto a Roma martedì
scorso: «In Italia i comuni sono ottomila. In Germania sono ventiquattromila;
in Francia ancora di più: trentaseimila. Ma le cose funzionano. La Francia ci è
arrivata con una ristrutturazione istituzionale importante. Hanno dimezzato il
numero delle regioni, da ventidue a dieci, ma hanno lasciato il primo livello
istituzionale, quello dei comuni, intatto. Ma non hanno lasciato tutto com’era.
Hanno creato le Communauté de communes,
che svolgono funzioni comuni per un intero territorio: bilancio, urbanistica.
In Italia,
prima abbiamo preso la strada opposta: dal 2007, per esempio, molte regioni
hanno iniziato a smantellare le Comunità montane, che sono scese da
trecentocinquanta alle attuali, poco più di una sessantina, concentrate in
Lombardia, Lazio, Campania e Sardegna. Ora la tendenza si sta invertendo:
alcune regioni, come Piemonte, Veneto, Friuli, Emilia-Romagna, hanno creato
delle nuove Unioni montane. Allargano lo sguardo anche oltre la montagna. Sono
attive oggi in Italia circa quattrocento aggregazioni intercomunali, dalle più
piccole, che raggruppano quattro o cinque comuni, alle maggiori, che ne
riuniscono anche una cinquantina. Ma senza un quadro istituzionale e senza una
strategia che provenga dal Parlamento o dai governi. E questo porta a esiti paradossali.
Il maggiore? I
comuni hanno bloccato le assunzioni, hanno tagliato i costi per il personale,
ma, nel frattempo, hanno fatto lievitare senza alcun controllo la spesa per le
consulenze. In Piemonte, ci sono comuni di quaranta o cinquanta abitanti dove
le consulenze proliferano. Viene da pensare che la debolezza dei comuni senza
personale giovi a qualcuno.
Le opportunità
ci sono, i soldi potrebbero esserci. Anche se il Pnrr
è stata un’occasione sprecata proprio perché in Italia non si è ripensato il
disegno istituzionale dei territori. E così i fondi del Pnrr
sono stati proposti ai singoli comuni, che ne hanno fatto un’ultima questione
di campanile, presentando progetti in concorrenza gli uni con gli altri, invece
di mettere assieme le forze.
«Con un’unica
eccezione – spiega ancora Marco Bussone – quella costituita dalle Green
Community, che fanno parte della nostra legislazione dal 2015, promosse da
Uncem proprio per favorire la nascita di aggregazioni intercomunali per portare
avanti i temi della transizione ambientale. Grazie a loro, il Pnrr ha messo a disposizione centotrentacinque milioni di
euro, su cui sono stati presentati duecento progetti, ciascuno riguardante un
unico ambito territoriale. Tutte assieme hanno mobilitato millecinquecento
comuni».
E le Green
Community sono il centro della strategia nazionale proposta da Uncem, e non
certo limitata ai soli comuni montani. È una visione che non si limita alla
sostenibilità ambientale: punta infatti a promuovere
alleanze territoriali tra enti pubblici, società civile e imprese per
trasformare le risorse locali (foreste, acqua, energia rinnovabile) in motori
di sviluppo sostenibile. Il cambio di prospettiva è da sottolineare. Il
territorio montano non è più visto solo come oggetto di tutela, ma come soggetto
attivo, capace di produrre economia verde e servizi ecosistemici.
L’obiettivo è
anche di far rientrare le Green Community all’interno delle Snai, la Strategia
nazionale per le aree interne, che dal 2023 è stata posta sotto il Dipartimento
per le Politiche di coesione e per il Sud, affidato al ministro Tommaso Foti,
assieme agli Affari europei e, appunto, al Pnrr. La
parola d’ordine, insomma, è: ricostruire un tessuto istituzionale per creare
governance locali solide e capaci di attrarre e gestire risorse.
Il Rapporto
individua i principali punti di attacco del problema. Intanto, i fondi europei.
Sulla programmazione 2021–2027 dei fondi europei qualcosa si può ancora fare,
ma bisogna soprattutto attrezzarsi in vista del nuovo piano 2028–2034.
Nell’immediato, c’è il digital divide, che è ancora
un ostacolo imponente. I comuni montani devono diventare protagonisti dell’innervamento digitale, sfruttando il Piano Banda Ultra
Larga, il Piano 5G e il Piano Italia 1 Giga.
Anche perché
la tecnologia non è solo infrastruttura: è anche leva per nuovi modelli di
lavoro e imprenditorialità. Il lavoro da remoto, le cooperative di comunità,
l’agricoltura di precisione, il turismo esperienziale sono ambiti dove i
giovani professionisti possono trovare spazio, se le condizioni lo permettono.
La montagna può tornare ad attrarre cervelli e braccia, ma solo se il capitale
umano è messo in condizione di restare.
Un altro
grande capitolo di opportunità è rappresentato dalle filiere produttive locali,
che il Rapporto definisce in maniera puntuale. L’economia del bosco, la
produzione di energia da fonti rinnovabili, la gestione sostenibile dell’acqua,
la valorizzazione del patrimonio agroalimentare, il turismo slow: sono tutte
leve già presenti sul territorio, ma ancora sottoutilizzate. Anche in questo
caso, le Green Community possono diventare il contenitore strategico per queste
filiere, mobilitando anche l’industria green tech nazionale.
Ad esempio, il
legno locale può essere una risorsa per la bioedilizia o la filiera corta della
manifattura, riducendo l’import di materia prima. Tuttavia, tutto questo
richiede imprese, cooperative, consorzi pronti a investire e territori che
sappiano coordinare. Un esempio emblematico: la filiera del legno locale.
Ancora oggi importiamo materiali dall’estero, mentre le nostre foreste crescono
e si abbandonano. Riattivare queste filiere significa creare occupazione,
tutelare il territorio, generare valore a chilometro zero.
E tornano alla
memoria le immagini della strage di abeti rossi nelle Dolomiti nel 2018 a opera
della tempesta Vaia: milioni di metri cubi di legname che sono stati dirottati
in Austria, da cui li abbiamo poi reimportati come prodotti, perché non c’erano
nel Nord-Est aziende in grado di lavorare quelle quantità di materia prima
pregiata.
Saranno
sufficienti questi primi interventi a invertire la rotta? Il Rapporto è chiaro:
il declino demografico è un’emergenza che si è cronicizzata. Ma ci sono segnali
di speranza. Alcuni comuni sperimentano forme di neopopolamento,
grazie a progetti di accoglienza, ritorni di emigrati o nuovi residenti
attratti da qualità della vita e nuove opportunità. Tuttavia, questi segnali
sono fragili e rischiano di restare episodi isolati.
La condizione
perché si trasformino in tendenza è che vi sia una reale possibilità di
procurarsi da vivere in montagna, come sottolinea il Rapporto. Non si tratta
solo di offrire case a basso costo o incentivi. Serve un ecosistema che
garantisca servizi minimi (sanità, scuola, mobilità), connessione digitale,
accesso a lavoro qualificato e supporto all’impresa. In questa direzione, il
concetto di Lep (Livelli essenziali delle
prestazioni) specifici per la montagna è una proposta chiave, ancora da attuare
***
(Stefano Carli
www.linkiestra.it è stato per anni autorevole redattore di "Affari e
Finanza" settimanale economico di "Repubblica")