Hub energetici. Il governo sottovaluta il ruolo dei porti nella transizione verde italiana 

di Stefano Carli - Linkiesta

 

ROMA -. La transizione ecologica ed energetica dell’Italia deve passare in larga misura dai porti italiani. Ma anche i porti, come il resto del Paese, sono in ritardo: soffrono degli stessi ritardi che governo centrale e amministrazioni locali stanno accumulando rispetto all’obiettivo numero uno di un’Italia green: la produzione di energia rinnovabile. 

 

Due numeri per capire che o si accelera adesso o gli obiettivi del Pniec, il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima al 2030, presentato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Bruxelles lo scorso primo luglio, non potranno essere raggiunti. Dovremmo arrivare a produrre ottanta gigawatt di sola energia fotovoltaica nel 2030: alla fine del 2024 eravamo a trentasette gigawatt, cresciuti in due anni – da fine 2022 – di dodici gigawatt. Riusciremo ad aggiungere quarantatré gigawatt di nuovi impianti nei prossimi cinque anni? 

 

Stessa musica sull’eolico: a fine dicembre 2024 avevamo tredici gigawatt di potenza installata, appena 1,2 gigawatt in più rispetto al 2022. Da qui al 2030 dovremmo installare pale eoliche, a terra e in mare (offshore), per ulteriori quindici gigawatt.  

 

Perché i porti siano strategici lo spiega l’ultimo report di Srm sul tema “Energia e porti”,  realizzato con il Politecnico di Torino e pubblicato a febbraio. Srm è il centro studi – collegato al Gruppo Intesa Sanpaolo e sostenuto dalla Fondazione Compagnia di San Paolo – specializzato nell’analisi delle filiere produttive e del turismo con focus particolari sul settore logistico-portuale e sul comparto energetico. 

 

I porti – spiega lo studio di Srm – devono essere in prima fila nella transizione verde perché per loro il tema energetico è vitale, per due ragioni. Perché l’energia è uno dei loro core business, e perché ci sono degli step nel business marittimo globale che stanno facendo crescere la richiesta di servizi logistici più ecologici. Una domanda che non verrà fermata neanche dalla retromarcia di Donald Trump rispetto ai temi del clima. 

 

Pensando ai traffici marittimi, vengono subito in mente container e crociere, movimentazioni di prodotti industriali e alimentari. Ma il trentacinque per cento delle attività dei porti italiani è legato alla movimentazione di fonti energetiche, per ora tutte di origine fossile. C’è sempre meno carbone, e anche il greggio ha iniziato una fase di volumi calanti, ma il gas è in forte crescita, specie dopo che l’invasione russa dell’Ucraina ha di fatto azzerato l’attività dei metanodotti che portavano gas russo sulle nostre coste. 

 

Adesso una quota crescente di gas arriva via nave dai grandi fornitori di Gnl, il gas naturale liquefatto, ossia il metano. Grandi fornitori che sono gli Emirati del Golfo Persico e gli Stati Uniti (uno degli obiettivi dei dazi trumpiani è anche l’aumento della quota del Gnl statunitense da vendere in Europa).

 

Non a caso la Spagna, che è lo Stato dell’Unione europea con il maggior numero di rigassificatori (gli impianti che trattano il Gnl arrivato via nave e lo immettono nelle condutture), è diventata dallo scorso anno un Paese esportatore di gas, avendo aumentato la produttività dei suoi sei impianti oltre il livello della domanda interna. In Italia ce ne sono quattro: uno a terra, a Panigaglia (Liguria), uno al porto di Livorno, un’isola artificiale al largo di Rovigo e quello di Piombino. Quest’ultimo è una nave ormeggiata che alla fine del 2026 dovrebbe lasciare l’Isola d’Elba per spostarsi non si sa ancora dove. 

 

Queste dinamiche, però, stanno per cambiare, perché i porti devono attrezzarsi alle nuove esigenze del trasporto marittimo. Devono aggiornare i loro sistemi di stoccaggio per accogliere i biocarburanti e il biometano che alimenteranno i grandi motori marini delle navi: secondo lo studio di Srm, già oggi il cinquanta per cento degli ordini raccolti dalla cantieristica mondiale riguarda navi mosse dalle nuove alimentazioni (le navi elettriche non sono nemmeno all’orizzonte e, come gli aerei, continueranno a spostarsi grazie a grandi motori termici). Avere la disponibilità di rifornimenti bio sarà un fattore discriminante per le grandi rotte commerciali e per difendere le quote dei porti italiani sul totale dei traffici nel Mediterraneo. 

 

C’è infine la questione del cosiddetto cold ironing, in sostanza l’elettrificazione delle banchine. Oggi le grandi navi, da crociera o da carico, quando sono nei porti hanno i motori accesi per l’alimentazione delle attività e dei dispositivi di bordo, e sono la causa della collocazione dei porti tra i grandi produttori di emissioni di anidride carbonica. Elettrificazione vuol dire collegare le navi alla rete elettrica a terra e spegnere i motori. Anche questo farà la differenza nell’offerta della logistica marittima. Per farlo, però, bisogna attrezzarsi e puntare anche all’autoproduzione di rinnovabili sfruttando i tetti di edifici logistici e capannoni. Ma qui iniziano i ritardi. 

 

«I porti italiani hanno le condizioni di partenza per diventare dei veri e propri hub energetici. Ma per riuscirci dobbiamo contare su strumenti normativi e finanziari chiari. Per noi ci sono due filoni fondamentali. Il primo riguarda i porti come distributori multicommodity di combustibili, dal Gnl al bio Gnl fino all’Hvo, il biodiesel a disposizione degli armatori», afferma Dario Soria, direttore generale di Assocostieri, l’associazione delle imprese che gestiscono i grandi depositi costieri dei carburanti movimentati via nave. 

 

Il secondo, prosegue Soria, «è quello dei porti come luoghi privilegiati di produzione di energie rinnovabili. Entrambi presentano al momento nodi da risolvere. Sulla distribuzione abbiamo bisogno di sapere in fretta le dimensioni del mercato. Per esempio capire se l’Unione europea aprirà ai biocarburanti per il settore automotive togliendo il blocco ai motori termici al 2035, che cambierebbe di molto la domanda potenziale e le esigenze di nuove infrastrutture: lo abbiamo detto anche al tavolo tecnico sull’automotive convocato dal ministro del Made in Italy Adolfo Urso. Sul secondo caso impattano invece di più le norme italiane sulle Cer, le comunità energetiche rinnovabili, e l’efficienza degli apparati pubblici nell’autorizzare e sostenere i nuovi investimenti energetici».

 

Le Cer sono un grosso problema per l’Italia: se le rinnovabili sono cresciute poco è anche perché finora le Cer non si sono sviluppate. Sono poche e soprattutto troppo piccole, e soffrono di un vizio di nascita: sono state pensate per piccoli impianti in zone marginali, tant’è che finora i fondi stanziati, che coprono fino al quaranta per cento dell’investimento, sono stati diretti verso progetti con una capacità produttiva fino a duecento kilowatt e a condizione che tutti i soggetti aderenti alla Cer fossero allacciati alla medesima cabina elettrica. Una caratura da impianti domestici insomma, se si pensa che un tetto di un villino bifamiliare può ospitare circa dieci kilowatt. 

 

Le cose dovrebbero migliorare con l’ultima revisione delle Cer, varata dal ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica (Mase), poco più di un anno fa. Si ampliano i limiti e si creano le nuove Cerp (Comunità energetiche portuali), che possono arrivare fino a un megawatt, ma hanno mantenuto i limiti dell’allaccio di tutti gli aderenti a una unica cabina Enel. Vuol dire che, per esempio, il porto di Genova non potrebbe mai partecipare a una Cerp, ma dovrebbe costituirne sei. «E comunque – spiega Soria – alimentare elettricamente una singola nave da crociera in porto richiede dodici-tredici megawatt». 

 

In una visione ottimale, i porti potrebbero produrre energia rinnovabile per le loro esigenze e anche per le città che li ospitano. Per il momento, porti e territorio procedono ciascuno per proprio conto e non si riescono ad approvare progetti comuni. Sui rigassificatori le decisioni sono in mano agli enti locali: lo dimostra il caso di Piombino, dove invece i soggetti economici puntano al mantenimento della nave anche dopo il 2026. Sull’eolico offshore la  parola è ai piani regionali, come in Sardegna, dove tutto è stato fermato per la revisione regionale delle aree idonee, comprese quelle lontane dalla costa. Ma almeno i porti si stanno muovendo. 

 

I porti di Trieste e Monfalcone stanno investendo ventinove milioni per l’elettrificazione delle banchine, con l’obiettivo di ridurre le emissioni delle navi durante la sosta in porto. A Civitavecchia due mesi fa sono iniziati i lavori per ottantuno milioni di euro, finanziati attraverso il Pnrr, per l’installazione di nove stazioni di ricarica per diverse tipologie di navi.  Gioia Tauro ha varato un piano da sessantasei milioni di euro. 

 

A Genova, oltre all’elettrificazione delle banchine, sono stati installati impianti fotovoltaici nel terminal Ignazio Messina (duecento kilowatt), nel Cantiere di San Giorgio del Porto (cento kilowatt) e sui Magazzini del Cotone (centonovanta kilowatt). Bari, Brindisi e Salerno stanno varando piani di cold ironing. E intanto si testano anche nuove tecnologie: nel porto di Napoli, al molo San Vincenzo, è stato installato un dispositivo per  la conversione dell’energia del moto ondoso in elettricità, e un piano analogo è partito anche a Civitavecchia.  

 

Si usano cassoni galleggianti a filo d’acqua, che in pratica non si vedono. Per questo non hanno subito l’ostracismo ambientale delle pale eoliche, che suscitano ovunque grandi proteste perché accusate di deturpare il paesaggio. Anche quando, come nel caso dell’eolico offshore, vengono installate a oltre venti chilometri dalla costa. E nessun bagnante le vedrebbe a occhio nudo

***

(Stefano Carli - Linkiesta - Per anni redattore di punta di "Affari e Finanza" settimanale di Repubblica. Ora collabora con importanti pubblicazioni)