Il lavoro deve passare dall’età del 'welfare' a quella del 'wellness'. Uno studio del Censis 

di Stefano Carli - Linkiesta

 

ROMA - Negli ultimi decenni il divario di produttività del sistema Italia è stato considerato un frutto essenzialmente del gap tecnologico: poca digitalizzazione, poca innovazione, prodotti e produzioni indietro nel tempo. Non è più così. Secondo il Censis è invece dovuto a due fattori finora poco o nulla considerati: motivazione e coinvolgimento.

 

Due termini che, uscendo dalla terminologia sociologica e andando sul campo, significano in sostanza due cose ben note: basse retribuzioni e mansioni sottodimensionate. Può sembrare la scoperta dell’acqua calda ma non è così proprio perché prima si tendeva a pensare che il problema fosse appunto la tipologia di business, troppo arretrata e poco innovativa.

 

Evidentemente le imprese italiane la prima parte dei loro compiti l’hanno fatta: gli investimenti in tecnologia e digitale ci sono stati. Ma la trasformazione è rimasta a metà: le tecnologia ha accelerato i processi produttivi, ma poche volte ha davvero trasformato in modo radicale l’organizzazione aziendale. Proprio come si teme farà ancora di più in futuro l’intelligenza artificiale, ha liberato persone dalle mansioni più basse e ripetitive ma non le ha trasformate in nuove risorse attraverso la formazione.

 

Risultato: il 44,3 per cento degli occupati dipendenti hanno considerato un cambio di professione, soprattutto i più giovani (64,6 per cento), probabilmente per fattori legati alla necessità di conoscere diverse realtà, in modo da acquisire più competenze, oppure a un’insoddisfazione generale verso ruoli non in linea con le proprie aspirazioni. La quota cala, ma resta comunque vicina alla metà (quarantacinque per cento) per i 35-45enni e scende solo con gli over-55 (diciotto per cento) che naturalmente percepiscono come rischioso l’abbandono della propria stabilità lavorativa, soprattutto quando il mercato del lavoro non risulta favorevole per persone oltre una certa età.

 

Sono questi i principali risultati del Rapporto “Engagement e produttività. Più produttività attraverso la leva della motivazione e del coinvolgimento sul posto di lavoro” realizzato dal Censis con la collaborazione di Philip Morris Italia, presentato nei giorni scorsi a Roma.

 

Un senso di insoddisfazione, di disincanto e alla fine di disimpegno generalizzato emerge dai numeri dello studio, condotto su lavoratori dipendenti di diversi settori e presso imprese di tutte le dimensioni. Per tutti però i motivi che spingono a a considerare un cambio di lavoro sono soprattutto di ordine economico: retribuzione inadeguata (50,7 per cento); mancanza di riconoscimento e apprezzamento (36,9 per cento); stress elevato o cattiva gestione del carico di lavoro (33 per cento); difficoltà nel bilanciare vita privata e lavoro (22,1 per cento); aspettative crescenti delle aziende senza adeguate ricompense (21,2 per cento).

 

 

I ricercatori del Censis, passando a individuare le possibili risposte per uscire da questa impasse, puntano su due aspetti: migliorare le retribuzioni e il benessere mentale. Certo, agire sulle retribuzioni è difficile, perché l’impatto sui bilanci aziendali è immediato e gli effetti positivi arrivano nel tempo.

 

Allora forse la soluzione è agire sull’altra leva: il benessere. È per questo che al Censis sintetizzano il processo come «passaggio dall’era del welfare a quello del wellness». Che significa in sostanza che il vecchio (e attuale) sistema di protezione delle condizioni economiche di base dei lavoratori non basta più. Oggi non è soltanto importante preoccuparsi dell’assistenza sanitaria e delle prospettive pensionistiche, ma bisogna muovere passi più decisi nel migliorare la qualità della vita dei lavoratori. Meno orario ma più coinvolgimento. Significa – spiega lo studio – potenziare il benessere mentale valorizzando di più i dipendenti e promuovendo un migliore equilibrio tra vita privata e lavoro. In particolare, i più giovani avvertono con maggiore intensità la mancanza di riconoscimento (42,1 per cento), mentre la fascia 35-44 anni è quella che risente maggiormente delle difficoltà nel conciliare lavoro e vita personale (30,8 per cento).

 

Sono obiettivi non da poco e che stanano anche un altro ambito economico che deve iniziare a fare i conti con il nuovo scenario: i sindacati. I grandi contratti collettivi nazionali sono stati la loro grande conquista nel Novecento e hanno garantito miglioramenti nelle condizioni di vita dei lavoratori e nei loro diritti. Per questo i sindacati vedono le contrattazioni di secondo livello (territoriali) e quelle aziendali con molto sospetto. Eppure adesso è lì che bisogna andare. Anche loro devono adeguarsi all’economia del terzo millennio, perché di certo un ruolo ce l’hanno ancora e devono difenderlo, ma non può essere quello del secolo scorso.

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(Stefano Carli www.linkiesta.it è stato per anni autorevole redattore di "Affari e Finanza" settimanale economico di "Repubblica")