I conti non tornano. Perché l’Italia fa
il record di occupati con un’economia in calo
di Stefano Carli - Linkiesta
ROMA
- Ventiquattro milioni di occupati: mai il mercato italiano in questo millennio
è arrivato a toccare questa cifra, neanche nell’ultimo periodo d’oro delle
economie mondiali, il 2007, poco prima che scoppiasse la bolla dei mutui
immobiliari negli Stati Uniti e il crack Lehman. A guardare i dati
sull’occupazione in Italia, sembra di essere all’alba di un nuovo miracolo
economico. Occupazione ai massimi: a fine 2024 c’erano settecentottantamila
occupati in più rispetto al 2019, prima della pandemia; occupati full time
tornati ai livelli del 2007 e quota del part time in calo; disoccupazione ai
minimi, aumento dei posti di lavoro vacanti nell’industria e nei servizi.
Soprattutto inizia a scendere anche il tasso di disoccupazione giovanile, dove
stavamo anche peggio della Spagna e lontanissimi dell’Europa che conta. E perfino i famigerati “neet”, not in education, employment or training, sono in deciso calo.
Allora,
che cosa c’è che non va? C’è che non tornano i conti. Conti rigorosamente
elaborati da Ref nell’ultimo quaderno congiunturale datato 7 gennaio. Mettendo
in fila nel modo giusto i dati Istat, il giudizio è preoccupante: l’occupazione
è cresciuta ma l’economia no. E questo, ovviamente, non è un buon segnale.
È
un quadro complicato, in cui i dati contraddittori che emergono lasciano
intravedere uno scenario decisamente anomalo. Allora, nota Ref, l’occupazione
cresce, crescono le ore lavorate ma non cresce la produttività. Calano i
disoccupati ma i salari restano quasi fermi, perché di fatto recuperano poco di
quello che hanno perso negli ultimi due anni a causa dell’inflazione. Anzi, per
il gioco degli scaglioni di aliquota, l’aumento nominale delle retribuzioni ha
prodotto un aumento del fiscal drag, il drenaggio fiscale, di quasi
diciotto miliardi nel lavoro dipendente e di ventisei miliardi nell’economia
nel suo complesso.
Come
dire – nota Ref – che in questo modo le casse pubbliche si sono ripagate i
minori introiti dovuti alle minori tasse sul lavoro e alla riduzione del cuneo
fiscale. D’altra parte, con il nostro debito pubblico e la massa di interessi
da pagare ogni anno, margini di manovra non ce ne sono e si può ragionare se
questa operazione non sia alla fine una redistribuzione di risorse che lascia
il potere d’acquisto grosso modo invariato ma togliendo dalla precarietà quasi
un milione di famiglie.
Ma
la di là degli effetti sociali di questa operazione, resta il dato di fatto di
che razza di economia sia quella in cui si creano più posti di lavoro ma non
più ricchezza e benessere. La risposta è che artefici di questa strana e
anomala ripresa sono le imprese. Imprese che hanno bloccato il turn over,
cercando di tenere gli attuali dipendenti anche a costo di sottoimpiegarli, e
al tempo stesso hanno assunto nuove figure professionali, più giovani e legate
alle nuove mansioni frutto della digitalizzazione. Il tutto è avvenuto però non
in una fase di espansione ma di crisi, con la produzione industriale, che non
cresce più da quasi due anni.
Perché
lo hanno fatto? Ci sono diversi ordini di ragioni. La prima è che le imprese,
prima ancora dei dati Istat, stanno registrando gli effetti del calo
demografico in termini di disponibilità forze di lavoro: cala, e lo farà sempre
di più, la popolazione in età lavorativa perché quelli che ne escono per
raggiunti limiti di età sono più di quelli che entrano. Questo rende più
oneroso, in termini di costi e tempi, trovare nuovi candidati da assumere.
Ossia: in condizioni normali, con una produzione industriale che non cresce, le
imprese avrebbero ridotto l’occupazione. Oggi invece, in vista,
o meglio, nella speranza, che la produzione industriale riprenda, fanno
di tutto per tenersi il capitale umano in casa. Come si spiegherebbe altrimenti
che con un settore industriale in crisi come l’automotive,
a fine 2024 il livelli di cassa integrazione siano lo
0,3 per cento del totale, meglio che nel 2007, quando erano lo 0,4 per cento.
Quindi
le imprese industriali stanno portando sulle spalle l’economia italiana. Sono
loro che dal 2019 ad oggi hanno creato quattrocentomila posti di lavoro in più,
gli stessi dei servizi (490mila), ma in termini di occupati i servizi, dopo la
sbornia di terziarizzazione dei primi due decenni del nuovo millennio, valgono
due volte e mezzo l’industria: 16,7 milioni di occupati contro 6,4 milioni.
Dalla
pandemia in poi l’industria ha insomma ripreso coscienza del suo valore. Erano
le manifatture che hanno continuato a produrre Pil anche quando gli italiani
erano chiusi in casa nei lockdown. Ed è stato il settore industriale a
cogliere al balzo l’opportunità arrivata con le risorse europee per la
ripartenza dopo la pandemia e per la digitalizzazione per cambiare pelle
definitivamente. E infatti la qualità degli occupati ha iniziato a cambiare:
oggi i nuovi occupati, quelli nella fascia di età tra venticinque e
trentaquattro anni con un livello di istruzione superiore al diploma, sono
oltre il trenta per cento, mentre quelli a bassa qualifica (low skilled) sono al diciannove per cento.
Nel
2007 i numeri erano esattamente invertiti. Siamo ancora in ritardo rispetto al
resto dell’Europa che conta, ma il recupero è in corso. È su questo recupero
che si abbatte però la crisi innescata dall’impantanamento europeo sull’auto
elettrica. La più grande trasformazione di un intero settore industriale che si
vuole consumare in poco più di un decennio con l’imposizione dello stop
definitivo ai motori termici nel 2035: una scelta varata quattro anni fa quando
era già evidente il ritardo europeo rispetto alla Cina sulle batterie, che
andava ad aggiungersi alla storica debolezza europea nel campo dei chip
rispetto ad Asia e Stati Uniti.
Altri
grandi settori industriali hanno vissuto nell’ultimo mezzo secolo mutamenti
epocali, ma nessuno ha dovuto subire questo dirigismo imposto dall’alto. La
telefonia mobile è passata dall’analogico al digitale senza che le filiere
subissero conseguenze perché furono loro stesse a gestire la transizione. Lo
stesso è accaduto con la tv. La stessa rivoluzione di internet è un qualcosa
che dura da più di quaranta anni.
Gli
ultimi dati sulla produzione industriale parlano di un rallentamento della
frenata. A novembre siamo a meno 1,5 per cento, la metà di ottobre e di tutti
mesi precedenti in cui il calo si era mantenuto costante sopra il tre per
cento. Ma è chiaro che la parte del leone in questo calo la fa l’auto, che solo
in Italia denuncia un calo di produzione vicino al quaranta per cento, a cui si
aggiungono le crisi francese e soprattutto tedesca, mercato per cui lavora la
fetta forse più consistente dell’indotto auto italiano, un settore da duemila
imprese, centosettantamila addetti e sessanta miliardi di fatturato.
Adesso
le speranze sono che l’Unione europea riveda le sue strategie sull’auto
elettrica mantenendo gli obiettivi di calo delle emissioni ma scegliendo la
neutralità tecnologica, scelta che ridarebbe fiato agli investimenti europei.
Anche perché non bisogna dimenticare che paradossalmente proprio l’Europa è il
sistema industriale più avanzato sui carburanti alternativi, sia sintetici
(Germania) che biologici (Italia) che sono fondamentali per decarbonizzare
altre importanti voci dei trasporti, come gli aerei, le navi e il trasporto
pesante su gomma, che non potranno mai fare a meno dei motori termici.
L’auto
non è la sola partita industriale che si gioca a Bruxelles: c’è anche la
difesa, dove la Commissione von der Leyen II dovrebbe
portare a compimento quanto già ipotizzato alla fine della scorsa legislatura
europea, sulla spinta dei nuovi scenari indotti da Donald Trump. Poi, certo, ci
sono le partite che sono solo italiane e di cui non possiamo incolpare l’Europa.
A partire dagli impianti di generazione di energie rinnovabili: solare, eolico
e biomasse, termine solitamente usato per evitare il sinonimo che fa paura a
ogni amministratore locale, ovvero i termovalorizzatori bio.
In Italia sulle nuove energie siamo indietro per colpa di una classe politica
incapace di gestire la collocazione territoriale dei nuovi impianti, sia a
livello nazionale che locale. Con la conseguenza di essere in ritardo sui piani
europei (con rischio di multe) e di avere un costo dell’energia per imprese e
famiglie tra i più alti d’Europa.
Già
sbloccando queste due partite, auto e rinnovabili, per l’industria italiana ci
sarebbero le prospettive di un balzo considerevole. Sia in termini di
investimenti diretti, sia in quelli dell’effetto volano su diverse filiere
collegate. Sarebbe l’avvio di una domanda industriale interna di livello
superiore, guidata dalla digitalizzazione e dai sistemi di controllo di
procedure complesse, come la produzione diffusa di energia. D’altra
parte stiamo ancora scontando i costi pesanti di un sistema di incentivi
alla produzione pensati guardando al secolo scorso invece che all’oggi e al
futuro come sono stati i vari superbonus sull’edilizia.
È
a questi orizzonti che guardano le imprese mentre accettano di farsi carico di
una quota inedita di problemi occupazionali. Ma non possono reggere a lungo. Ma
anche sul mercato i tempi sono stretti: per salvare l’industria europea
dell’auto ci sono tre mesi. Oltre la primavera, altro che tenuta occupazionale,
inizieranno a chiudere le imprese.
***
(Stefano
Carli www.linkiesta.it
- Giornalista di Repubblica per oltre 30 anni, Carli è stato una colonna del
settimanale Affari e Finanza. Attualmente collabora a importanti pubblicazioni)