TRIBUNA

 

“STILE STAMPA” IN VENDITA: CRONACHE DI GHIACCIO, PARTITI LONTANI  

di Fabio Martini

 

ROMA - Lo chiamavano “stile Stampa” - ricorda Fabio Martini su "Professione Reporter" - e per molti anni quell’espressione altera ha espresso un’autentica anomalia nel panorama dei giornali italiani. La Stampa che si affermò a partire dall’inizio degli anni Cinquanta, lasciando un imprinting duraturo, riusciva a combinare nelle sue pagine un approccio anti-retorico e senza pregiudizi nel racconto dei fatti e nella loro analisi; un rigore anglosassone sulle fonti; uno sguardo allargato al resto del mondo. Naturalmente non era un meccanismo perfetto e tuttavia c’era qualcosa che ne fece un modello, grazie al carisma di un Direttore come Giulio De Benedetti, il mitico “Gidibì”.Un modello che fece impennare le vendite e negli anni Sessanta fece scrivere al Times che La Stampa era diventato “il miglior quotidiano d’ Italia”.

 

De Benedetti restò alla guida per 20 anni, dal 1948 al 1968, ma non fu solo la durata del suo mandato a lasciare un’impronta al giornale, Certo, l’aneddotica pesa nel mito. Quel suo incipit delle riunioni: “Signori, seduti”. O l’abbigliamento decritto da Enzo Bettiza: “Non portava camicia e cravatta ma certe strane magliette bianche da ciclista che gli davano un tocco anticonformistico” e “giacche a doppiopetto di fresche tinte giovanili”. Ma quel che conta sono state le scelte giornalistiche: nell’Italia mai così spaccata dell’aprile 1948, con un Corriere tutto schierato da una parte, il giorno prima delle elezioni del 18 aprile, “gidibi” scrisse: “Questo giornale è indipendente, non gli spetta di additare l’uno o l’altro Partito” e il 21 aprile invocava “una pacificazione”, invitando a coinvolgere le sinistre nella legislazione

 

Editoriali che esprimevano un distacco dai contendenti che sarebbe diventata una cifra distintiva nelle stagioni migliori della Stampa. Certo, un giornale segnato dalla cultura azionista dei suoi migliori editorialisti, ma quella cultura non diventò mai elitarismo grazie all’impronta popolare voluta da De Benedetti ed espressa non solo nella cura per i lettori espressa dallo “Specchio dei tempi”, ma anche da un approccio ai fatti di cronaca che è ben descritto dal confronto tra due reportage, uno pubblicato dalla Stampa e uno sul Corriere nel 1967 dopo una rocambolesca rapina ad una banca di Milano ad opera di alcuni banditi torinesi. Sulla storia si cimentano Enzo Biagi sulla Stampa e Dino Buzzati sul Corriere. Nel suo “Banditi a Milano” Biagi restituisce i ritratti dei banditi, il loro ambiente, il corridoio della Mobile nel quale si aggira il cronista. Un racconto tutto dettagli e fatti che il vicedirettore Piero Martinotti definirà “una cronaca di ghiaccio”, ben diversa da quella di Buzzati, letteraria e moralistica. E quello era lo “stile Stampa” che per qualche decennio diventò la cifra del giornale.

 

Gianni Agnelli – che considerava La Stampa un gioiello di famiglia e che svegliava i direttori alle 6,30 per voracità di sapere – alla fine degli anni Sessanta capì che il giornale di famiglia doveva allargare gli orizzonti oltre il confine regionali e nazionali ed ebbe il coraggio di allontanare De Benedetti. Che non la prese bene, anche se non lo mostrò nell’editoriale di commiato: “Un gruppo di uomini liberi esposero su queste colonne le loro idee”.Agnelli come direttore scelse un altro fuoriclasse: un giornalista colto e di grande esperienza internazionale come Alberto Ronchey.

 

La terza svolta all’inizio degli anni Novanta: il ciclone Tangentopoli rese il potere politico meno influente e La Stampa di Paolo Mieli seppe riempire quel vuoto meglio di altri: il racconto sul Palazzo diventò senza timori reverenziali, nel 1990 uscì il primo “retroscena” con tanto di testatina, un genere che prima di diventare via via maniera, sapeva indagare su pensieri e parole che si consumavano dietro la scena. La settimanalizzazione della notizia diventò un modello. In quegli anni La Stampa era così davanti a tutti che poteva capitare – e accadde a chi scrive – di essere chiamati dal Corriere ma di fare una scelta in altri tempi impensabile: restare. Tre stagioni memorabili che hanno forgiato lo stile Stampa, un imprinting che ha consentito ai suoi giornalisti più capaci di far vivere quell’approccio fino ad oggi.

 

Ora che il proprietario della Stampa cerca un acquirente per quello che per un secolo è stato un bene inalienabile, è impossibile sapere cosa sarà di questo giornale e non è detto che una storia sia per sempre finita. Certo, l’anima di un giornale è qualcosa di inafferrabile e di indefinibile: è un impasto di stratificazioni successive, di direttori e di giornalisti, di stili umani e professionali diversi, dell’interazione dei lettori. Una cosa è certa: per tanti dei 70 anni seguiti alla Liberazione La Stampa ha accompagnato il vissuto di milioni di suoi lettori e lo ha fatto col contributo di un bene prezioso: il racconto il più possibile veritiero dei fatti, nel tentativo di aiutare a capirne il senso.

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(Fabio Martini - www.professionereporter.eu)